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Suspense alla brasiliana. Le elezioni e le sue incognite

Pubblico qui l’articolo uscito l’11 ottobre su «Pagina99», una riflessione sui risultati del primo turno delle elezioni brasiliane, in attesa del ballottaggio che si svolgerà domenica 26 ottobre. La domanda era: la sconfitta di Marina Silva, il ridimensionamento di Dilma Rousseff e il ritorno in gioco di Aecio Neves significano un sussulto della destra brasiliana? E cosa vuol dire, “destra”, oggi in Brasile? Inoltre, è di ieri la notizia che, dopo lunga riflessione, Marina Silva ha dichiarato il suo appoggio a Neves, appoggio vincolato a una serie di impegni programmatici. Decisione che solleva, tra chi ha seguito il lungo percorso politico di Silva, non poche perplessità. Nel pezzo, un riassunto delle puntate precedenti e gli interrogativi sul tappeto. 

Diciamo che nella costruzione del buon thriller sulle elezioni brasiliane era stata ideata una variazione di trama. Dilma Rousseff correva (e corre) per la rielezione contro Aecio Neves, leader del partito che da dodici anni è il maggiore avversario del PT di Lula, cioè il PSDB, Partito della Socialdemocrazia Brasiliana. Sulla scelta della variazione gli sceneggiatori sono stati, è vero, un po’ drastici: prendere il jet privato del terzo candidato, il socialista Eduardo Campos, e farlo precipitare sulla città di Santos (patria di Pelé e di Neymar). A quel punto, l’unica conseguenza di una variazione del genere era per forza l’entrata in gara di Marina Silva (vice di Campos), carismatica ex-ministra luliana, ecologista, che nel 2010 aveva preso, da sola, venti milioni di voti. Di colpo, lo scenario elettorale cambia. Marina scalza Aecio nei sondaggi e si piazza al secondo posto dietro Dilma. Ma l’infatuazione dura poco: a differenza dei colleghi, Marina non finge di ignorare il voto dei milioni e milioni di evangelici (è lei stessa praticante) e si mostra vacillante sui temi etici: omofobia, aborto, eccetera. Inoltre ha sempre fatto e fa molta paura all’establishment petista, in quanto il suo profilo indio e la quasi monastica coerenza ne fanno una specie di Lula ante-litteram. È presa di mira da tutti. Dilma l’attacca come una lupa a cui minacciano la prole. Così, ricade al terzo posto in un crescendo verdiano al contrario.

Si arriva a domenica 5 ottobre: Dilma al primo posto (41%) e Aecio che riconquista il secondo, e meglio di quanto sperasse (33%). Marina non ha vinto, ma (con il 21%) ha frantumato la solidità del centro-sinistra.

elezioni pagina99Aecio, oggi come oggi, è la destra, che in Brasile si traduce in un pensiero rimasto alle ormai nebbiose ricette di Fernando Henrique Cardoso, predecessore di Lula, che mentre implementava qualche timido programma sociale (d’altra parte era ed è un sociologo) spingeva massicciamente sulle privatizzazioni, e in aeree strategiche come petrolio e risorse minerali, alcune riuscite del tutto altre a metà (vedi la Petrobras, rimasta in mano al governo). Lula, giunto al potere il primo gennaio 2003 inverte la rotta: acceleratore pigiato sui programmi sociali (Borsa FamigliaLuce per tutti,La mia casa la mia vita, etc) e rafforzamento dello Stato nella politica economica e finanziaria. Non c’era la crisi mondiale, all’inizio. Dilma ha ereditato queste direttrici e la crisi. E infatti la votano i poveri. Però il modello si è piegato sotto il peso di una coscienza sociale più robusta. Lula e Dilma hanno latitato su salute, sicurezza, giustizia. E oggi c’è fame di cambiamento.

Su questo appetito adesso affila le posate Aecio Neves, 54 anni, ex-governatore del grande Minas Gerais, nipote di quel Tancredo Neves che fu eletto presidente nel 1984 ma morì improvvisamente (altro colpo di scena) prima di prendere possesso dello scranno. Tancredo Neves che, nel lontano 1953 fu ministro della giustizia di Getúlio Vargas, il dittatore populista che guardava con ammirazione a Mussolini, tentò di allearsi con Hitler ma fu rimesso in riga da Roosevelt.

Aecio Neves ha masticato politica fin da ragazzo all’ombra del nonno. Si affilia al PSDB, partito che nasce nel 1988 (anno della nuova Costituzione post-regime militare) in uno scenario all’epoca dominato dal PMDB (oggi diffusissimo partito moderato) e il PT (dei lavoratori) emerso dalle battaglie sindacali di San Paolo.

Il PSDB, il partito dei Tucanos (è il loro simbolo) è quello che porta F.H.Cardoso alla presidenza ed è il partito che, ormai da tempo immemore, guida lo Stato di San Paolo, vale a dire la maggiore e più inquinata economia del Sud America, regione che da sola ha le dimensioni, il Pil e il traffico d’auto di uno Stato di medie dimensioni.

Aecio si prepara alla presidenza da anni. La crisi del Pt e la frantumazione politica sono la sua grande occasione. Gli effetti già si vedono. Quello eletto domenica è il parlamento più conservatore degli ultimi dodici anni. Cosa significa? Significa la presenza di numerosi deputati evangelici nel vero senso della parola, cioè pastori di chiese. E una settantina di deputati “ruralisti”, cioè rappresentati degli interessi dei proprietari terrieri (e in Brasile per la terra non si scherza, si muore). Destra in Brasile significa questo: contrasto alle leggi per legalizzare aborto e liberalizzazione delle droghe leggere (il problema del narcotraffico in Brasile è una piaga sociale), e acerrime resistenze alle riforme per la salvaguardia della terra, della foresta, delle riserve indigene. Questi settori sono trasversali ai partiti e hanno più o meno forza a seconda delle alleanze. L’incognita riguarda quale spazio e quali nuove alleanze potrebbero formarsi con un governo formato da Aecio Neves. E sulla base delle alleanze, pragmatiche (non programmatiche), quali idee rendere vincenti.

©Alberto Riva

Brasile 2014, non solo calcio. Al voto per le presidenziali

Sul Venerdì di Repubblica di oggi racconto la vicenda politica di Marina Silva che, dopo aver visto bocciato dal tribunale elettorale il suo nuovo partito Rede Sustentabilidade, ha rinunciato alla corsa come candidata presidente ma, alleandosi con i socialisti, scompagina ugualmente uno scenario politico quasi immobile. Ne avevamo parlato qui nelle settimane scorse. E’ evidente però che la sua (ormai quasi probabile) scelta di non correre più in prima persona lascia campo libero alla rielezione forse già al primo turno di Dilma Rousseff. Tuttavia, da qui al prossimo ottobre, potrebbero verificarsi altri colpi di scena. Nello stesso tempo, la strategia attendista di Marina guarda lontano: fossi nei suoi avversari, cioè il Pt di Lula e Dilma, comincerei a preoccuparmi per il 2018.

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Chi ha paura di Marina Silva? Il suo nuovo partito, «Rede», rischia di non partecipare alle presidenziali 2014

MarinaUn thriller politico sta andando in scena in queste ore nei palazzi di Brasilia, tranne che non è un film. Marina Silva, ex-senatrice ed ex-ministro dei governi Lula, leader di battaglie ecologiste, dopo un anno dedicato a raccogliere firme per la creazione della nuova formazione politica Rede Sustentabilidade (Rete Sostenibilità) ha ricevuto ieri la peggiore notizia immaginabile dai piani alti del Supremo Tribunale Elettorale che, nella figura del Pubblico Ministero Elettorale ha dato parere contrario alla creazione della Rede.
In un Paese, il Brasile, dove in ogni città e paesucolo, in vista delle elezioni amministrative nasce e si afferma un partito, il movimento della Silva viene considerato, nelle parole dei vertici dell’organo competente, «non rappresentativo del volere popolare».
Le ragioni del diniego sarebbero tecniche: mancano circa 50mila firme al numero legale, che è di 500mila, da depositare entro il prossimo venerdì. Peccato che circa 75mila firme siano state invalidate e giudicate irregolari dagli appositi organi di controllo. Nonostante ciò, Marina Silva, ieri si è detta fiduciosa sul positivo esito del braccio di ferro tra il suo movimento e la burocrazia.

E’ lecito a questo punto fare qualche riflessione. L’anno prossimo in Brasile non ci saranno solo i Mondiali di calcio, ma anche, in ottobre, le elezioni Presidenziali dove le certezze di una facile rielezione di Dilma Rousseff sono state messe in crisi negli ultimi tempi dal cattivo andamento dell’economia brasiliana e dallo scontento della piazza. Tanto che, dietro le quinte, il Partido dos Trabalhadores ha rispolverato la possibilità di una ricandidatura dell’ex-presidente Lula.

In uno scenario elettorale confuso Marina Silva conta invece su alcune sicurezze. Nelle scorse elezioni, quelle del 2010, la Silva ha raccolto quasi 21 milioni di voti pur non andando al ballottaggio finale, e oggi, secondo recenti sondaggi, rappresenterebbe il 25 per cento dell’elettorato brasiliano. L’hanno capito anche le pietre che se Marina Silva partecipasse alla disputa sarebbe più che un fastidio per i suoi avversari, che pure partono in enorme vantaggio.

Per correre alle prossime elezioni (intenzione non ancora esplicitata, ma molto probabile) Marina Silva avrebbe potuto tranquillamente affiliarsi a un partito già esistente: nel 2010 corse con il Partido Verde.
Ma no: il suo progetto politico è di radicale rinnovamento e non trova rappresentanza in alcun schieramento oggi sul tappeto. Per questo ha deciso di proporre al suo immenso bacino elettorale un partito nuovo nella forma di un movimento dal basso, la Rede, nato e cresciuto attarverso una diffusione capillare sul territorio e la partecipazione via internet (in qualche modo simile nei meccanismi, facendo le debite differenze, al Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo).

Marina Silva è una figura pubblica percepita come portatrice di una fortissima carica di coerenza politica e morale. Sentimenti che oggi trovano un riscontro sensibile nei nuovi movimenti di protesta che hanno caratterizzato gli ultimi mesi.
Dopo essere stata la più giovane senatrice della storia brasiliana, e poi ministra dell’ambiente in due governi Lula, la Silva ha lasciato il secondo governo Lula quando capì che gli interessi della crescita economica (come si è visto, spesso doppata) cozzavano contro gli ideali sbandierati dall’allora compagine di governo.
Fu un distacco traumatico: Silva è cresciuta nel partito di Lula dopo la militanza al fianco degli estrattori di caucciù della sua zona d’origine, l’Acre, la stessa dell’amico, assassinato, Chico Mendes. Lei stessa viene da una famiglia di estrattori, poverissima.
Quello di Lula e del PT fu un progetto politico in cui Silva ha creduto e dal quale si distaccò proprio in contrasto con l’allora ministro della Casa Civil, il gabinetto della presidenza, Dilma Rousseff, ora sua avversaria politica.
Adesso, ostacolato da fragili questioni tecniche, il suo nuovo progetto Rede rischia di non poter partecipare alla sfida elettorale dell’anno prossimo.
La domanda è quasi fatale: chi ha paura di Marina Silva?

Suicidi per legge: gli indios brasiliani nel loro labirinto

170 indios Guaranì-Kaiowà hanno scritto e consegnato una lettera in cui annunciano il loro suicidio collettivo. Un suicidio inesorabile e provocato, in parte, da (mala) giustizia. La notizia, da qualche giorno, tenta di farsi largo su alcuni giornali brasiliani ma soprattutto sui social network. Gli indigeni occupano una zona di foresta lungo un fiume del Mato Grosso do Sul, confine con il Paraguay. Il che significa confine del mondo. Il che significa la forza bruta dell’agro-business che in nome di un ettaro di soia transgenica in più è capace di sacrificare anche la propria madre, se la povera crista fosse di impedimento. Nel 2005, la suora americana (la povera cristiana) Dorothy Stang fu uccisa in Amazzonia per la stessa ragione, e così migliaia di contadini, indios, sindacalisti, attivisti, preti, suore, estrattori di caucciù (come Chico Mendes): uccisi per la terra. La terra che non è la terra, è il suo sfruttamento; e sopra, lo sfruttamento di alberi da segare o da bruciare, acqua per irrigare, animali da spremere come limoni, insomma quello che è pubblico, che è bene collettivo, trasformato in moneta privata, in soldo particolare. In sangue.
Fa notare Eliane Brum su Epoca che la Costituzione post-dittatatura del 1988 protegge i nativi ma lo Stato non è in grado di applicare la legge. Potremmo aggiungere: o forse non vuole? In questo caso specifico, è un tribunale che ordina ai 170 indigeni di lasciare quella terra, una terra in cui si erano istallati nel 2011, ai margini di una fazenda (perché tutto là è sempre fazenda). Ora: non bisogna immaginare la “fazenda” come una fattoria con i suoi confini, le staccionate, la casetta con il fumo che sale verso il cielo, il recinto con gli animali, i maiali col nasone e il contadino con la pipa di frassino. La fazenda qui è un mondo sterminato di foreste, fiumi, laghi, ettari ed ettari di terra lasciati ora volutamente allo stato brado ora alla cura intensiva dei fertilizzanti o dei semi geneticamente modificati. Eppure la legge riconosce che parte di questa terrà è tekohà, terra nativa, terra tradizionale. Nel film che Marco Bechis qualche anno fa dedicò a una storia come questa il capotribù, a un certo punto, si inginocchia e mangia un pugno di terra. Un gesto melodrammatico e commovente. Qualcuno potrà dire: ma ci sono le riserve, perché vanno via dalle riserve?
Risposta: perché le riserve sono delle fabbriche di disperazione, dove c’è un tasso di alcolismo e suicidi che non risparmia nessuno, bambini, donne, uomini. L’indigeno, per legge, è una Nazione. Vale a dire che ha un diritto di esistenza indipendente dallo Stato che lo ospita. Sappiamo bene come è andata la vicenda: faceva già caldo il giorno in cui navi ben equipaggiate da avanzi di galera e mercenari di ogni schiatta sbarcarono da questo lato del mondo e cominciarono a lavorare di machete, storie di santi e finte carte bollate.
La terra… Gli indios erano li da prima: il loro Dio era un albero ed era il fiume, con certe foglie sapevano sanare le ferite, con certe zolle friabili diluire colori fantasmagorici e dipingere, e raccontare. Li hanno cacciati come si fa con le zanzare. La caccia non è mai finita. Dura anche oggi, al tempo di internet. Non è cambiato nulla, l’uomo mangia l’uomo, più dei lupi. Dal 200o a oggi, informa il Ministero della Salute, si contano circa 555 suicidi, la maggior parte impiccati agli alberi, tra i 15 e i 29 anni, come gli “strani frutti” che cantava Billie Holiday. (Dal 1980 sono circa 1500 suicidi). Del gruppo che ora ha consegnato la lettera al Cimi (Consiglio Missionario per gli Indigeni, una costola della Conferenza dei vescovi brasiliani, CNBB ), fanno parte 50 uomini, 50 donne e 70 bambini. Scrivono di aver ormai “perso la speranza nella giustizia”, che invece di proteggere loro aiuta gli aguzzini: aguzzini che sparano e incendiano e, già diverse volte, hanno distrutto un ponte grazie al quale attraversare il fiume. Scrivono di essere certi che andare via da lì “equivale a morte e disperazione”, e che quindi, consapevoli che sotto quella terra sono sepolti molti dei loro avi, la decisione finale è quella di morire lì, non solo: chiedono che lo stato mandi “una squadra di trattori” per scavare una immensa fossa comune…
La lettera è stata consegnata l’8 ottobre. Gli indios sono attualmente asserragliati nella loro terra, circondati da gruppi di pistoleiros (sicari) armati: ne hanno già uccisi due e torturati altri due negli ultimi mesi. Oltre ad aver incendiato e disseminato il terrore. A parte la Brum, poche voci importanti si sono levate in loro difesa; tra queste quella di Marina Silva, ex-candidata alla presidenza della Repubblica ed ex-estrattrice di caucciù, che ha scritto: «Ho già detto tutto sui Guaranì-Kaiowà, e niente sembra persuadere la “civiltà brasiliana” che lo sterminio di questo popolo è un crimine imperdonabile e il sangue dei suoi figli ricadrà sulle nostre teste». Purtroppo, il sangue di questi figli dimenticati ricadrà nelle loro prime colazioni, sotto forma di merendine e cereali.

Gestione ambientale in Brasile: il governo fa (volutamente) marcia indietro

Quando era solo a un passo dall’approvazione della riforma del Codice forestale, data per certa a inizio settimana, ieri la maggioranza di governo in Brasile ha fatto un clamoroso passo indietro e ha rimandato la votazione a data da destinarsi. Vittoria secca dello schieramento politico che si opponeva alla polemica riforma (leggi post), capitanato dai Verdi di Marina Silva (nella foto). Lo scontro sulle nuove regole di gestione ambientale in Brasile aveva raggiunto un livello molto alto e rischiava di essere approvato con pesanti modifiche o addirittura non passare. Proprio la paura di fallire la votazione ha spinto la maggioranza di Dilma Rouseff (che in questo voto contava anche sull’appoggio di parte dell’opposizione) a fare dietrofront per non incorrere nella prima vera sconfitta della sua presidenza cominciata lo scorso gennaio. Su un tema, quello della gestione ambientale e soprattutto della produzione agricola in aree protette (leggi Amazzonia e dintorni) , che è di primissimo piano. Delusi, a questo punto, i settori ruralisti, potenti e presenti in gran forze al parlamento e che spingevano per la “flessibilizzazione” del Codice, inclusa la controversa amnistia per chi ha sfruttato eree protette di foresta, cerrado, mata altlantica fino al 2008. Secondo un articolo del quotidiano Valor, però è stata la stessa presidente Dilma a imporre, in una lungimirante mossa politica, il passo indietro ai settori più duri dell’agrobusiness, favorendo così la sua base elettorale e il suo partito, il PT. La questione e il peso delle forze in gioco sono spiegati bene anche da questo articolo di Carta Capital. Nonostante siano volate anche accuse e mezzi insulti tra personaggi per altro non distanti idelogicamente (almeno un tempo…), come il relatore del progetto Aldo Rebello del Partido Comunista do Brasil e Alfredo Sirkis dei Verdi, quello di ieri è sembrato un buon giorno di dialettica parlamentare, dove i voti e le posizioni non giungono al congresso così blindati e precostituiti da non lasciare spazio a sorprese. Farà scuola? Speriamo.

Nuovo “Codice Forestale”, il Brasile di fronte a un bivio

Qualche giorno fa uno tra i più noti  politici brasiliani, il deputato comunista Aldo Rebelo, in un passaggio nella città baiana di Salvador, si è beccato una “vaia” di fischi da parte degli studenti di agronomia. Rebelo ha sempre rappresentato il volto onesto della politica brasiliana, e allora perché gli studenti agronomi l’han fischiato? Semplice: perché a Rebelo è toccato l’ingrato compito di essere il relatore del progetto di legge che modificherà il Codice Forestale brasiliano. Tema che in Italia potrebbe interessare quattro scalzacani, ma che in Brasile invece è di fondamentale importanza. Il Brasile è uno dei principali produttori di materie prime agricole al mondo (soia, carne, canna da zucchero, mais, cotone, legno etc) e dunque tutto ciò che attiene a quel settore è cruciale, e le forze, le pressioni, le lobby che vi si muovono attorno sono micidiali. Ebbene è proprio in questi giorni che il progetto di riforma del codice giunge sui banchi del congresso per essere approvato. Ed è una riforma polemica che, tra i suoi punti, prevede una amnistia generale per chi ha violato per esempio i termini dello sfruttamento legale di aree di foresta fino al 2008, oppure contempla la diminuzione dello spazio tra foresta convertibile in area sfruttabile e i corsi d’acqua, che oggi deve essere almeno di trenta metri. Perché se tu tagli gli alberi, poi coltivi della quella terra, e poi usi dei fertilizzanti o erbicidi chimici, è ovvio che l’acqua di quel fiume, o ruscello, o anche la falda sotterranea saranno contaminati, lo capisce anche mia nonna di 94 anni. La legge tuttavia è voluta da un ampio schieramento, che include forze di governo in blocco e parti dell’opposizione, ed è contrastata soprattutto dal partito Verde ormai rappresentato dall’ex-senatrice e ex-candidata alla presidenza Marina Silva (che ha preso 22 milioni di voti alle scorse elezioni) e da altre svariate sigle dei movimenti sociali, indigeni e via dicendo. I promotori della riforma la indicano come una “necessaria flessibilizzazione” del codice, in modo da favorire lo sviluppo economico di quelle aree, gli oppositori invece avvertono di rischi già in atto, come la ripresa del disboscamento per esempio in Mato Grosso (il regno della soia) confortato dalla prospettiva dell’amnistia. Secondo i promotori si è a un passo dall’approvazione, secondo i critici a un passo dal “suicidio ecologico”.

La vita di Marina Silva diventerà un film

Sarà la regista carioca Sandra Werneck a girare il film sulla vita dell’ex-canditata alla presidenza del Brasile Marina Silva, l’ecologista brasiliana, ex-senatrice, che alle ultime elezioni, nell’ottobre del 2010, ha raccolto più di venti milioni di voti. La regista, già autrice della biografia cinematografica del cantautore Cazuza, scomparso molti anni fa prematuramente e amatissimo in Brasile, ha comprato i diritti del libro Marina Silva, a vida por uma causa, uscito l’anno scorso. La data di inizio riprese non è ancora stata divulgata. Resta aperta anche un’altra domanda interessante: chi sarà l’attrice chiamata ad intepretare una delle figure più straordinarie e amate del Brasile? Nel frattempo, il blog della Silva informa che il twitter della ex-senatrice ha vinto il Shorty Awards nella categoria “politici”, vale a dire l’oscar dei twitter assegnato dal giornale The New York Times.
(Nella foto, Marina Silva, 53 anni)

Elezioni/2: Il fattore Marina

Lunedì amaro per Lula e la sua candidata Dilma Rousseff: si sono fermati al 47%. José Serra, terza o quarta volta candidato, sorride: 33%. Marina Silva, con il 19,33%, trionfa: è fuori dalla competizione, ma è lei la vera vincitrice delle elezioni e, ovvio, da qui al 31 ottobre, data del ballottaggio, sarà al centro della scena. La domanda che tutti si fanno è: a chi andranno i suoi 20 milioni di voti? Probabilmente lei si asterrà da una indicazione, per coerenza (la marca di fabbrica di questa grande donna brasiliana), ha anzi detto che indirrà una discussione interna al suo partito, i Verdi, da cui uscirà nel caso l’eventuale indicazione di voto. C’è una tendenza interna ai Verdi per appoggiare Serra, tuttavia una parte dell’elettorato di Marina è lo stesso che un tempo, prima della nascita del Leviatano, votava Lula. Anche se qui ci sembra emerga una nuova creatura: chi è questo insorgente elettorato di Marina? Chi sono questi 20 milioni di brasiliani che, a sorpresa, contraddicendo tutti i sondaggi, hanno voltato le spalle a Dilma e votato il nuovo sogno (una versione aggiornata, nuovamente vibrante di quello che nel 2002 portò Lula a Brasilia) che la Silva rappresenta oggi? Difficile prevedere da che parte penderà la bilancia, ma è naturale che sarà più facile da adesso per Serra richiamarsi ai marinisti, soprattutto nel suo grande bacino elettorale, quello di San Paolo, uno dei maggiori del Paese. Dilma avrà più difficoltà a infilarsi nell’ombra protettiva di Marina, perché l’opposizione tra le due donne è stata fin qui più accesa. Marina se ne andò dal governo Lula proprio in polemica con le scelte pragmatiche di Dilma, alla quale, in veste di ministra della Casa Civil (il portafoglio del governo), toccava mettere la faccia nelle scelte poco sostenibili dal punto di vista ambientale relative alla foresta amazzonica e non solo. Alcuni oggi affermano che alcuni temi molto scottanti in Brasile e non risolti, come per esempio l’aborto, abbiamo giocato un ruolo fondamentale: Marina, evangelica, è nettamente contraria a una nuova legge che depenalizzi l’interruzione di gravidanza, mentre Dilma, più laica, ha cambiato diverse volte idea sulla questione. Può essere, ma non è certo una ragione sufficiente a spiegare la nuova situazione di incertezza che si profila da oggi al 31 ottobre. Lula ha già fatto sapere che dedicherà un mese di appassionata campagna per la sua candidata Dilma e probabilmente alla fine ce la faranno. Serra si giocherà il tutto per tutto vendendo temi ambientalisti e tingendosi di verde a più non posso. Lo stesso tenterà Dilma. Da questo punto di vista, da adesso in avanti, sarà una campagna elettorale più divertente, accesa, nervosa, rispetto a quanto successo fin qui, con quell’aria da giochi già fatti, una campagna elettorale tra le più noiose mai viste. Un risultato c’è già, comunque: Lula non è il lulismo. I venti milioni che hanno votato Marina mandano questo messaggio alla cupola di governo. Il tiro va corretto, la fame di quel sogno brasiliano resiste insoddisfatta nel grande Paese che si è concentrato soprattutto a entrare tra i Grandi, ma che è fatto ancora di gente che comincia a lavorare a 9 anni, che non mette le scarpe per andare a prendere l’acqua al pozzo, che non può accedere a buoni studi e buona salute perché è nero o indio, e in quanto nero o indio è povero e discriminato. Nello stesso tempo, chi vota in Marina è quella classe media intellettuale delusa dal lulismo, rappresentata bene dal vice scelto da Marina, Guilherme Leal, magnate dei cosmetici sostenibili, padrone di Natura, uno dei brand brasiliani più diffusi al mondo. Marina, in qualche modo, interpreta questa segreta formula brasiliana, popolare e raffinato che si incontrano: il Brasile è anche questo, non è solo il “popolino” mirato dal lulismo e accontentato con il benefit di 90 Reais a fine mese e crediti facili per comprare la televisione al plasma in 70 rate. Sembra cioé che stia emergendo qualcosa di nuovo. Dilma sarà senza dubbio presidente il primo novembre, ma deve governare guardando a questo nuovo, perché altrimenti nel 2014 potrebbe essere la volta di Marina Silva.