Etichettato: Brasile

Clarice Lispector, viaggio alle origini dell’ispirazione (e della scrittura)

Un soffio di vita, che Adelphi manda in libreria nella traduzione di Roberto Francavilla, è il romanzo postumo della scrittrice Clarice Lispector, una delle maggiori voci brasiliane del Novecento, figlia di immigrati ebrei ucraini. Romanzo in forma di riflessione sulla scrittura e sull’ispirazione, è un ulteriore esempio della lucente lingua poetica della scrittrice. Ne parlo su Il Venerdì di Repubblica.

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Vita e miracoli di Jorge Amado, l’uomo che ha inventato l’anima brasiliana

E’ uscita in Brasile una corposa e utile biografia di Jorge Amado (1912-2001), il maggior scrittore brasiliano e uomo le cui idee sono ancora importanti. La biografia firmata dalla giornalista e studiosa Joselia Aguiar, analizza a fondo la storia dello scrittore baiano, tracciando nel contempo una storia sociale, politica, culturale del Novecento brasiliano.
Ne parlo su “Il Venerdì di Repubblica”

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Il nuovo disco di Elza Soares: «Canto per chi non ha voce»

Su “Il Venerdì di Repubblica” intervisto Elza Soares, decana della musica brasiliana, che con il suo ultimo disco Deus é mulher («Dio è donna») segna un ulteriore traguardo in una lunga e appassionata carriera di impegno per i diritti civili, a ritmo di samba e di swing.

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Stefano Bollani: «Il mio gruppo brasiliano? Un tappeto volante».

Sul “Venerdì di Repubblica” intervisto Stefano Bollani in occasione dell’uscita del suo nuovo disco, Que bom, che segna il ritorno in Brasile a dieci anni dal successo di Carioca.
Ospiti d’eccezione, oltre agli stessi musicisti di Carioca, questa volta sono Caetano Veloso, Joao Bosco, Hamilton de Hollanda e Jaques Morelembaum e altri.bolla1_venerdì

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Quando il Brasile serviva Hitler e le memorie di Anita Prestes

Sua madre era Olga Benario, ebrea tedesca che Getulio Vargas espulse dal Brasile alla vigilia della Seconda Guerra mondiale. Anita Prestes, che oggi ha 81 anni e nacque in una prigione della Gestapo, storica e studiosa autrice di molti libri, racconta la vicenda che coinvolse suo padre Luis Carlos Prestes e la madre, una storia avventurosa e tragica che non bisogna dimenticare.
La mia intervista su “Il Venerdì di Repubblica”

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Anche i romanzi dialogano? La risposta in due capolavori di Camilleri e Amado

La Sicilia a cavallo tra Sei e Settecento assomiglia molto al Brasile di inizio Novecento. “Tocaia Grande” di Jorge Amado e “Il Re di Girgenti” di Andrea Camilleri sembrano parlare una lingua comune. Ecco perché (secondo me).

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E se anche i romanzi dialogassero tra loro? E’ l’impressione che mi ha lasciato la lettura, casualmente in sequenza, dei due bellissimi romanzi di Camilleri e Amado. Sebbene separate da quasi duecento anni, le storie che raccontano sono simili: da una parte i signori della terra e dall’altra i contadini, i braccianti: giornatanti e stascionali in Sicilia, alugados a Bahia. In una vicenda troviamo i baroni Tuttolomondo, Tomasi, Boscofino, nell’altra i coroneis Robustiano de Araujo, Brigido Barbuda, Prudencio de Aguiar. In mezzo, sempre e comunque la terra, i suoi frutti – cacao a Bahia, grano in Sicilia – e la sanguinosa lotta tra privilegio e lavoro, tra diritto e sopruso.

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Andrea Camilleri

Le due storie sono state scritte entrambe in età matura: Jorge Amado torna al tema iniziale della sua opera, la terra, lavorando al romanzo dal 1982 al 1984, cioè quando ha una settantina d’anni.

Camilleri pubblica “Il Re di Girgenti” nel 2001, vale a dire a settantasei anni (ma ha cominciato a lavorarci nel 94, dopo aver scoperto in una libreria di Roma cenni della storia, vera, di un contadino che si fece Re a Girgenti).

Scrivono dunque alla stessa età: e infatti si tratta di due opere mature, due libri magistralmente orchestrati (e compiuti) a partire dalla scelta di usare il dialetto: il siciliano camilleriano che i lettori del commissario Montalbano già conoscono, qui però ben più vasto e sapido, e il portoghese/brasiliano/baiano più “basso” e nello stesso tempo più “ricco” che Amado abbia mai utilizzato.

La scelta della lingua fa in modo che entrambi i romanzi, prima ancora che racconti d’avventura, siano due favolose cronache. Leggendo, si avverte la palpitazione degli scrittori che tornano, felici, alla lingua della loro infanzia: Camilleri tra Agrigento e Porto Empedocle, e Amado tra Itabuna e Ilheus (e sia Porto Empedocle che Ilheus erano, e sono, due scali marittimi, due finestre sul mare dove si affacciano i paesi e gli scenari agricoli dell’interno).

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Jorge Amado (1912-2001)

Si tratta, inoltre, di due storie di colonialismo e post-colonialismo. Amado inquadra la sua narrazione nei primi decenni della Repubblica (fine Otto primi Novecento) dove però i lasciti della corona portoghese, tra cui la fine della schiavitù, sono ancora ben visibili; Camilleri ha invece sullo sfondo la dominazione spagnola in Sicilia e poi la breve parentesi savoiarda seguita alla pace di Utrecht (1714). Ma non sono, a mio parere, solo romanzi storici: si tratta piuttosto di due romanzi picareschi sulla scia di Alexandre Dumas.

Amado narra la nascita di una città, la Tocaia Grande del titolo, espressione che significa “imboscata”, la Grande Imboscata: la prima capanna sorgerà infatti nel luogo dove i jagunços del coronel hanno ammazzato quelli di un fazendeiro rivale: luogo straordinariamente bello, immerso tra piantagioni di cacao, fiumi e colline fertili. A voler far nascere la città è l’uomo che ha guidato l’imboscata, il pistolero Natário da Fonseca, infallibile braccio armato del padrone: un servo, in definitiva, che prefigura il proprio futuro da uomo libero, da piccolo proprietario.

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Porto Empedocle antica

Anche Camilleri racconta la storia di un figlio di contadini, il viddrano Zosimo, ex-senza terra diventato a sua volta piccolo proprietario, che per un brevissimo periodo, dopo aver guidato una rivolta di popolo contro i Savoia a Montelusa (Agrigento/Girgenti), si farà incoronare Re della città.

Nonostante l’uso che entrambi fanno del “fantastico popolare” e del serbatoio di leggende tratte dal folclore, si tratta di due romanzi realistici. Realistici ma certamente non veristi: poiché l’uso che Camilleri fa del “siciliano” ha una funzione tutta diversa da quella, mettiamo, di un Verga, il quale “registra” mentre il papà di Montalbano “inventa” e “improvvisa” variazioni sul dialetto inseguendo un “suono” (come farebbe un jazzista sul tema di una canzone).

Jorge Amado, da par suo, assorbe tutta la dimensione del “magico” di cui è innervata la cultura afro-brasiliana (e lo fa attraverso un uso della prosa che segue un ritmo di ballata, fatta di piccoli ritornelli, di reiterazioni, di forza, come per Camilleri, in definitiva “sonora”). Se non fosse una categoria altamente abusata e per certi versi arbitraria, potremmo dire che entrambi i romanzi rientrano nell’ampia corrente del “realismo magico” sudamericano.

Di fatto, Tocaia Grande, città immaginaria, assomiglia alla Macondo di Gabriel Garcia

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Ilheus antica

Marquez: e cioè luogo non di invenzione, bensì luogo allegorico. Non diversamente, Montelusa e Vigata, sebbene siano null’altro che Agrigento e Porto Empedocle, posseggono una qualità in più, che è proprio quella dimensione “fantastica” capace di ospitare il nostro immaginario, il fertile, euforico esercizio dell’immaginazione che le rende topograficamente più vaste.

È vero che, oltre i figli e i seguaci di Zosimo e Natário, queste città sono abitate da bestie parlanti, fantasmi, sogni, allucinazioni, dèi pagani, predicatori minacciosi e folli, oltre – ed è un ulteriore tratto comune ai due autori – una massiccia dose di eros, ma a ben osservare si tratta dello stesso effetto che Pablo Picasso ottiene con Guernica: la città basca, flagellata dalle bombe, è certamente assente dal quadro del pittore, eppure è molto più presente di quanto lo sarebbe se fosse stata fotografata.

Per questo, dicevo, Camilleri e Amado hanno scritto due romanzi che nel realismo hanno, più che il loro presupposto, un fatale esito; volevano, forse, scrivere una parabola, diciamo così, “politica”, attraverso una storia del passato; ed è noto che Amado vedeva in “Tocaia Grande” la metafora della fondazione del Brasile. Ma quello che probabilmente non si erano immaginati è la forza profetica dei loro romanzi. Ed è qui che intravedo la maggiore somiglianza: Jorge Amado e Andrea Camilleri hanno intrapreso uno scavo nella memoria, personale e storica, restituendo, paradossalmemte, un quadro (un dipinto) contemporaneo.

L’impressione è più evidente in Jorge Amado: il baiano scrive all’inizio degli anni Ottanta (cioè mentre la dittatura militare del 64 sta finendo) una storia ambientata un secolo prima, e che pare la fotografia di quanto avverrà trent’anni dopo, e cioè oggi; la resa dei conti fratricida e tutta interna al gruppo di potere cha ha governato negli ultimi quindici anni il Brasile. Ci si potrebbe spingere a una lettura ancora più nitida dell’impressionante vaticinio di Amado: gli antichi fazendeiros hanno lasciato che il giornatante (Lula) emergesse, ma quando il suo potere diventa più grande del loro (e soprattutto smette di essergli utile), allora le vecchie alleanze tra baroni tornano a rinsaldarsi e scatta la tocaia grande, “la grande imboscata”.

Jorge Amado, un po’ come Leonardo Sciascia con “Todo Modo” (1974), pareva aver rivolto lo sguardo al fantasioso, al metaforico (un albergo gestito da un prete dove i democristiani si ammazzano tra di loro), ma in realtà vedeva ben chiaro nel futuro prossimo dell’Italia.

Camilleri, in fondo, non si è mosso dal presente e gira intorno a un nodo sempre di attualità, il gattopardismo del potere nazionale: da questo punto di vista “Il Re di Girgenti” rappresenta una sorta di antefatto del romanzo di Tomasi di Lampedusa, e ne possiede pagine altrettanto luminose, come quella del dialogo tra Zosimo e il Capitano di giustizia Montaperto il quale, riferendosi ai nobili che non si sono ancora pronunciati sulla sua incoronazione, avverte: «Aspettanu, mio caru Re, pronti a tirarsi la loro convinienza. Ora comu ora, i nobili sono d’accordo con voi pirchì siete tanticchia megliu dei piamontisi. Aspettano a vidiri da indovi viene il ventu per isare le loro vele. Mi spiegai?».

Quale sia il vento, quale sia la sua direzione, e certamente i due protagonisti, uomini valenti, sono capaci di percepirne il profumo e la forza, il destino del loro popolo non cambia: la sorte del capanga Natário che volle farsi uomo libero e del viddrano Zosimo che volle farsi Re, e Re, vien da dire, solo per farsi libero anch’egli, è in fondo la stessa; per loro un certo momento arriva il confronto, terribile, con il privilegio, il privilegio che volle farsi regola, carta scritta, in una parola, potere costituito.

Il dialogo a distanza tra Jorge Amado e Andrea Cammilleri converge anche su questo punto, ma lascio al lettore il piacere di scoprire come vanno a finire le due storie.
Tuttavia per entrambe vale la medesima morale (che è destino) la cui sintesi spetta al brasiliano, anzi, a uno dei suoi personaggi, il falegname Lupiscinio: «Siamo sopravvissuti alla piena e alla peste: alla legge, no».

©Alberto Riva

Andrea Camilleri, Il Re di Girgenti, Sellerio editore Palermo, 2001
Jorge Amado, Tocaia Grande. A face obscura, Companhia das Letras, São Paulo, 2008
Edizione italiana: Tocaia Grande. La faccia nascosta, traduzione di Elena Grechi, Garzanti editore Milano, 1985.

Il samba è nell’anima. Parola di Stacey Kent

Sul Venerdì di Repubblica di oggi intervisto Stacey Kent, straordinaria cantante jazz e non solo. Tra le sue passioni c’è anche la musica brasiliana, che interpreta nel suo disco The Changing Light ma anche in un recente lavoro con Marcos Valle e in progetti futuri con Roberto Menescal. Di seguito il testo dell’intervista.

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Se le chiedi quali sono i cantanti che l’hanno ispirata, Stacey Kent, una delle più belle e raffinate voci di oggi, ti farà i nomi di Ella Fitzgerald, Willie Nelson, Cat Stevens, fino a Louis Armostrong. «Ovvero», spiega, «non penso in termini di genere musicale, ma di anima». La lista prosegue infatti con i brasiliani João Gilberto e Elis Regina e il francese Serge Gainsbourg, del quale la Kent interpreta divinamente le canzoni – in un francese più che impeccabile: «per via di mio nonno, russo, che visse vent’anni in Francia durante la sua giovinezza».

Stacey Kent, nata in New Jersey quarantasei anni fa ma oggi divisa tra Londra, la città di suo marito, il sassofonista e compositore Jim Tomlinson, e le montagne del Colorado, dove stanno quando non sono in tournée, arriva adesso per la prima volta a Roma l’8 maggio all’Auditorium Parco della Musica e il giorno dopo al Blue Note di Milano. Porta le canzoni del suo disco The Changing Lights, dove ad alcune perle della Bossa Nova si sommano pezzi scritti per lei, come in passato, da Tomlinson e dallo scrittore nippo-inglese Kazuo Ishiguro.

Partiamo da qui. Come nasce questa collaborazione con l’autore di Quel che resta del giorno?
«Stavo ascoltando una trasmissione della BBC chiamata Desert Island Discs, dove persone famose parlano della loro vita e alla fine c’è un gioco: se finissero su una isola deserta quali dischi porterebbero? E Kazuo Ishiguro disse che avrebbe portato con sé i miei dischi! Così è entrato nel nostro universo musicale. Quando era giovane, all’università, suonava la chitarra, che suona oggi ancora bene. Scrive testi che sento molto miei».

Oltre al francese canta anche in brasiliano. Come fa a essere così autentica, così naturale?
«Vado almeno una volta all’anno in Brasile, ho amici tra i musicisti e ho appena inciso un disco con Marcos Valle. Non potrei cantare in una lingua che non conosco, è una questione di fonetica. Il pubblico invece non per forza ha bisogno di capire le parole: ascoltare un’altra lingua è come una musica strumentale, è la poesia del suono, colpisce un’altra sfera dei sensi».
Nel disco ci sono anche due pezzi scritti con il poeta portoghese Antonio Ladeira. Cosa chiede a chi scrive per lei?

«Sanno che non amo il dramma ma i sentimenti malinconici. E la speranza. Nelle canzoni che canto, come nei samba di Vinicius de Moraes, deve esserci sempre un pizzico di speranza».
©Alberto Riva

In libreria dal 21 aprile

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La trama
Franco Scarlatti, ex poliziotto mezzo milanese e mezzo napoletano, vive da molti anni a Rio dove guida, con successo, un’agenzia immobiliare affacciata sulla spiaggia di Copacabana. Amante della buona cucina e della musica, in rapporti non facili con la ex moglie Carol, Scarlatti vede la sua routine messa in crisi quando, all’alba di un bollente sabato grasso, viene ritrovato un cadavere vestito da Mandrake: è il famoso giornalista Gigi Fossati… In breve l’inchiesta della polizia giunge fino a lui, e così Scarlatti decide di intraprendere un’indagine parallela. Non ci mette molto a scoprire che le cose sono diverse da come sembrano, a cominciare dalla comunità di italiani transfughi che si muovono tra l’abbagliante luce tropicale del presente e le ombre del passato. Chi ha potuto volere la morte di Gigi Fossati? Ma non solo: le domande cominciano a farsi pressanti, e inaspettate, anche nel cerchio più intimo della sua vita, che inizia a correre al ritmo di questo noir che è una commedia, una storia d’amore, e insieme un inno appassionato a Rio de Janeiro, “una città facile da amare”. Struggente, ironica, lontana dalle cartoline, la Copacabana di Riva, come la Belleville di Daniel Pennac, è pronta a entrare nel cuore dei lettori, popolata dai personaggi indimenticabili che animano le pagine di questo “samba”. Il primo è Franco Scarlatti, un po’ eroe un po’ truffatore, che dietro all’apparenza cinica, le battute taglienti e l’amore per il guadagno nasconde un cervello velocissimo e un animo quanto mai nobile.


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Alberto Riva, Il Samba di Scarlatti, Mondadori 2015