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La verità tropicale di Caetano Veloso e i 50 anni della dittatura in Brasile

La copertina dell'ultimo disco di Caetano Veloso, «Abraçaço», che sarà al centro della tournée italiana

La copertina dell’ultimo disco di Caetano Veloso, «Abraçaço», che sarà al centro della tournée italiana

Tra oggi e domani cade il cinquantenario dell’inizio della dittatura militare in Brasile, cominciata la sera del 31 marzo del 1964 e conclusasi dopo un lungo periodo di “disgelo” (cominciato nel 1979 con la legge di amnistia e il primo presidente non militare, José Sarney, nel 1985) e con la nuova costituzione del 1988, preludio alle prime elezioni davvero libere, quelle del 1989. Dal mio punto di vista è un anniversario poco allegro: proprio in questi giorni, dopo aver implicitamente dichiarato fallimento nella sua politica di sicurezza sociale, lo stato di Rio de Janeiro ha fatto ricorso alle truppe militari del governo federale e ha (di nuovo) militarizzato l’immenso complesso di favelas (Complexo da Marè) che sorge in quella parte depressa e rovente di Rio che dal centro conduce all’aeroporto internazionale.
Il fatto che dopo almeno quattordici anni di relativa prosperità, in una città importante come Rio e a meno di tre mesi dall’inizio dei Mondiali ci siano ancora i carri armati per strada, le truppe in assetto di guerra, gli spari (sebbene, come sempre, lontani dagli alberghi, dalle spiagge, su palcoscenici tenuti nascosti) significa che qualcosa di profondamente sbagliato è stato compiuto. Una cosa tra tutte: la politica delle Upp, la polizia pacificatrice nelle favelas. Poiché si è trattato di un’operazione di mera superficie, da mostrare ai media, fautrice di una pace fragile, se non illusoria. Perché quando la polizia militare si installa in una favela di Copacabana, bonificandola dai trafficanti, questi ultimi non è che svaniscono nel nulla, semplicemente si trasferiscono, migrano. E dove? In gran parte negli inespugnabili agglomerati più in periferia, come la Marè. Che adesso è sotto assedio, e nei giorni normali è un inferno di terrore, legge del narcotraffico e giustizia sommaria della polizia. O semplicemente, una città di baracche con le fogne a cielo aperto e i bambini immuni alla leptospirosi, tanto sono abituati a giocare dove anche i topi sguazzano.

Detto ciò, è stata una bella coincidenza che, in vista della sua tournée italiana, che comincerà il 30 aprile a Torino, abbia intervistato proprio in questi giorni Caetano Veloso, che oltre a essere il grande artista che conosciamo, creatore di canzoni indimenticabili, fu perseguitato dai militari della dittatura come simbolo di un’avanguardia artistica dalle idee nuove e non contenibili. Erano coloro che cantavano “è proibito proibire” e che avanzavano nel buio di un paese minacciato delle armi e dalla tortura a colpi di metafore e doppi sensi che neppure la censura era in grado di disinnescare. Sul Venerdì di Repubblica però non c’era lo spazio per riportare tutte le rispose che Caetano mi ha dato, e dunque approfitto del blog per riportare l’intervista inclusi passi che mi paiono interessanti e che sarebbe stato un peccato lasciare ai cassetti.

Caetano, dov’era quella notte dell’1 Aprile 1964, quando i militari presero il potere, se lo ricorda?
«Ero all’Università, a Salvador, insieme ad altri studenti, nella facoltà di economia, anche se io facevo filosofia. Cercavamo di capire come applicare la pedagogia di Paulo Freire, un filosofo della sinistra cattolica che ammiravo molto, ed era l’unica azione politica che realmente mi interessasse. Era la sera del 31 marzo. Arrivarono alcuni studenti dicendoci di filare a casa, i militari avevano preso il potere e avrebbero arrestato gente. Il giorno dopo c’erano i carri armati per strada e alcuni miei professori furono interrogati. Ebbi paura. Alcuni studenti dicevano che quello sarebbe durato dieci anni. Mi sembrò impensabile».

In Abraçaço rende omaggio a Carlos Marighella, attivista che fu ucciso dai miliari. Perché proprio lui?
«Marighella è stato un eroe romantico di sinistra. Ho scritto la canzone perchè la mia vicinanza con la lotta armata che lui tentò di guidare non era mai stata resa pubblica. Nel 1968 pensavo fosse necessaria un’azione di contrasto all’oppressione esercitata della dittatura. Una ex-compagna di università, Lourdes Mello Vellame, che come Marighella aveva fatto parte del Partito Comunista, mi propose una collaborazione logistica alla lotta. Accettai, ma fui arrestato (non per quello) prima di fare qualsiasi cosa. Ricordo che Jorge Amado morì con il desiderio che un monumento a Marighella fosse eretto nel centro di Salvador. Ricordo che quando Marighella morì io e Gilberto Gil eravamo in esilio a Londra e vedemmo la copetina di una rivista brasiliana in cui noi sorridevamo sotto il Big Ben e in piccolo c’era una foto di Marighella: io allora mandai un articolo a un giornale alternativo scrivendo: “Io e Gil siamo morti e lui è più vivo di noi”. La mia ammirazione per Marighella non significa che io abbia mai considerato la lotta armata corretta o efficace. E nemmeno che io sarei stato capace di parteciparvi attivamente; né posso sapere cosa sarebbe accaduto se avessi accettato l’invito di Lourdes. In realtà, al di là di un temperamento allergico alla violenza, ho presto capito che l’opzione delle armi non ha mai contato sull’empatia del popolo brasiliano. Inoltre, avevo una certa paura dei risultati sortiti dalle lotte rivoluzionarie: da tutte le parti avevano condotto a autocrazie e violenza pubblica. La canzone che ho scritto ora cerca di dire questo ed evidentemente non riesce a dire tutto, ma suona come qualcosa di strano, intrigante. Sembra la parodia di una canzone di protesta degli anni Sessanta. Eppure non lo è neppure lontanamente. Ci sono frasi quasi didattiche, ma non è didattica. C’è un fondo romantico, ma non è romantica. È un mostro con molte teste e una certa forza fascinosa.»

caetano_venerdiQuest’anno i suoi compatrioti sono tornati in piazza con le manifestazioni dello scorso luglio e anche dopo. È solo a causa del Mondiale o sta succedendo qualcos’altro?
«I Mondiali sono uno dei motivi, ma ci sono spinte più profonde. Lula si è dato molto da fare per portare il campionato in Brasile. Poi il governo federale e quelli locali hanno chiuso accordi poco chiari con le imprese di costruzione. Alcuni stadi carissimi non avranno alcuna utilità dopo il torneo, essendo stati tirati su in città che non hanno nemmeno tifoseria sufficiente a riempirli durante la stagione normale. Queste spese sono contestate dai manifestanti che chiedono “Standard Fifa” anche per scuole e ospedali. La maggioranza dei manifestanti tende a sinistra, molti sono radicali e alcuni violenti (non contro le persone bensì contro agenzie bancarie vuote e negozi di lusso). Tutti loro preferiscono Lula e il PT ai partiti di opposizione. Non è semplice districarsi. Ci sono anche quelli che approvano le critiche moraliste della destra alla corruzione del PT. Nessuno può prevedere come la popolazione – che ama il calcio – agirà durante i Mondiali. Qualsiasi cosa accada, non c’è alcuna speranza possa essere un Mondiale del quale il Brasile potrà dirsi orgoglioso in termini dei aeroporti, organizzazione e mobilità urbana. Le manifestazioni sono anche un segnale dello zeitgeist. La gioventù delle grandi città brasiliane sa di Occupy Wall Strett, di Piazza Tahir, degli Indignados di Madrid. Tutto ciò rivela un’instabilità mondiale che qualcosa vuole dire. In qualsiasi momento un fatto anche piccolo può scatenare cose grandi.».

Caetano lei si è posizionato in maniera molto dura, in un suo editoriale, a proposito di quel ragazzino nero, un menino de rua, che a Rio de Janeiro qualche mese fa è stato trovato incatenato a un palo della luce nel quartiere di Flamengo. Presumibilmente, in una sorta di rappresaglia/vendetta rivolta agli scippatori di strada. Le chiedo: un fatto del genere è un fallimento della politica o della società?
«È un orrore sociale e storico.»

Gli otto anni di Lula e ora Dilma Rousseff hanno cambiato il Brasile o è stata un’illusione ben promossa?
«I governi di Fernando Henrique Cardoso e Lula hanno cambiato il Brasile. Non abbiamo mai vissuto un periodo così lungo di democrazia – e le libertà democratiche non sono mai state così ampie come ora. Il Plano Real, implementato da Fernando Henrique come ministro dell’economia del governo di Itamar Franco ha stabilizzato la nostra moneta, contenuto l’inflazione e a favorito le condizioni perché Lula potesse sperimentasse con i suoi programmi di distribuzione del reddito. Il programma Bolsa Familia è molto importante e ha conseguenze profonde. Preso nel suo insieme, è un periodo positivo per la nostra Storia. Le forze retrograde della società brasiliana tuttavia dimostrano di non apprezzare una tale testardaggine democratica. C’è da dire che Dilma non ha la sagacia politica di Lula e l’economia mondiale non le è favorevole, ma le scelte interne nemmeno sono state sagge. Mi pare naturale venga rieletta, dal momento che la stragrande maggioranza dei brasiliani è giustamente grata alle conquiste del “lulismo”. Ma, vista la relazione tra il governo e gli alleati in parlamento non ci si può aspettare un secondo mandato migliore del primo.»

Prima che Marina Silva dovesse rinunciare a correre con il suo partito “Rede” (la cui formazione è stata bocciata dal Tribunale Elettorale), pareva che Dilma potesse avere qualche difficoltà a essere rieletta facilmente. Cosa pensa del fatto di una donna, un politico come Marina Silva, che nel 2010 ottenne quasi venti milioni di voti, non aver potuto portare il suo nuovo partito alle elezioni? 
«Ho votato Marina Silva nel 2010 e l’avrei votata anche il prossimo ottobre se si fosse presentata con la sua sigla “Rede”. Guardo con simpatia la sua collaborazione con Edurardo Campos, che è un uomo per bene ed è stato un eccellente governatore del Pernambuco. Può essere che voti per loro».

Veniamo alla musica. Le citerò i titoli di alcune sue canzoni e vorrei che lei mi dicesse come sono nate. La prima è “Coraçao Vagabundo”.
«Scrissi “Coraçao Vagabundo” che ero molto giovane. Praticamente non sapevo rifare sulla chitarra gli accordi della bossa nova. Ma stranamente, mi pare accettabile ancora oggi.»
“Terra”
«”Terra” la scrissi dopo esser tornato dal cinema dove avevo visto Guerre Stellari. Il film non mi era piaciuto molto ma l’idea che della gente nata sulla terra vivesse su pianeti distanti mi restò in testa e mi tornò il ricordo di quando, incarcerato dai militari a Rio nel 1968, vidi le prime fotografie della terra. Pensavo a Nietzsche parlando della terra con amore. E volevo ripetere anche io il suo nome con affetto. Giocando con quelle parole nacquero i versi della canzone.»
“Menino do Rio”.
«”Menino do Rio” me la chiese la cantante Baby Consuelo (oggi Baby do Brasil). Le piaceva un mio amico, un surfista della zona sud di Rio e voleva che io scrivessi una canzone su di lui. Una sera, con la chitarra in mano, mentre si parlava tra amici a casa mia, mi misi a osservare quel ragazzo e venne la sequenza armonica, quindi la melodia e le parole. In un’ora la canzone era fatta. E la cantai agli amici. Baby la registrò ed ebbe grande successo. Anche i musicisti della mia band vollero inseirla nel nostro disco successivo, che sarebbe uscito dopo quello di Baby. Amo molto questa canzone.»
“Leaonzinho”.
«”O Leaonzinho” l’ho scritta per un amico del mio stesso segno, un contrabbassista che è una delle persone migliori che conosco. Ha suonato spesso con me, suona con Jorge Ben Jor, con Marisa Monte ed è stato leader di un gruppo chiamato A cor do som. Siamo amici ancora oggi.»
“Fora da ordem”.
«”Fora da Ordem” mi è venuta dopo aver lanciato il disco O Estrangeiro quando mi stavo preparando a registrare Circulado. Avevo sentito Bush padre parlare di un “Nuovo ordine mondiale” e ho voluto contrapporre quell’espressione all’immagine della violenza quotidiana in Brasile.»

Dopo “Cȇ” e “Zii e Zie”, questo è il terzo album con suo figlio come produttore, come si sente a lavorare con lui?
«Moreno è fantastico, in studio è calmo e affidabile. Questi tre dischi devono molto alla sua lucidità. Credo che con “Abraçaço” si chiuda una trilogia, ma con il gruppo vorrei fare ancora qualcosa di diverso».

E quell’idea del disco con canzoni italiane, esiste sempre?
«Sì, da quando Stefano Bollani me lo ha proposto, ogni tanto se ne parla. Vedremo».

A partire da “Cȇ” abbiamo scoperto un Caetano più riflessivo, talvolta persino intimo, scoperto…
«Quello doveva essere un disco fantasma. Avevo immaginato di firmarlo con un eteronimo e con la mia voce modificata elettronicamente. C’era una canzone che dice: “ti passerò accanto e tu non saprai chi sono”. Poi è successo che proprio in quel periodo è finito il mio matrimonio e allora sono venute canzoni che non avrei immaginato, come “Minhas lagrimas”, “Nao me arrependo”, personali, malinconiche. Era, al contrario di quanto immaginato, tutto molto personale, così ho deciso di cantare con il mio nome e la mia voce di baiano post-Bossa Nova, come d’altra parte ho fatto con tutte le mie canzoni dopo il 1967, che sono certamente più verso il rock».

A partire da “Cȇ” ha chiamato la sua musica “transsambas”. Può spiegarci questa definizione?
«Quando stavo finendo Zii e Zie (a cui ho messo questo titolo a causa di Istanbul di Orhan Pamuk, che ho letto in italiano e in cui si trova tante volte questa espressione e il suono interno di quelle due parole mi affascinava) mi è venuta l’espressione “transsambas” per definire quello che questa band con formato di power trio faceva con il ritmo di samba presente in molte canzoni. Pensavo di aver inventato la parola. Poi ho scoperto che il musicista Marcos Moram l’aveva già usata negli anni Settanta. Così ho completato il gioco con “transrock”, al singolare, applicato al suono della BandaCȇ, che esegue i transsambas. Non è altro che un gioco di parole. Per dire però che facciamo qualcosa che va oltre il samba con un suono che va oltre il rock. “Oltre” non inteso come superiore o migliore, ma in senso di fuori luogo.»

Aveva annunciato il seguito del suo libro “Verdade Tropical”. Leggeremo prima o poi il resto della sua autobiografia?
«Davvero ho annunciato una continuazione di Verità Tropicale? Non ricordo nemmeno di averci pensato a scriverlo. Ma ci sono cose che a volte ho voglia di raccontare di quanto accadde dopo il 1972. In realtà, non ho quasi tempo di scrivere la rubrica settimanale che tengo sul giornale O Globo. In ogni modo, mi piacerebbe scrivere un altro libro.»

Che rapporto ha con il tempo che passa?
«Sento saudade di quell’allegria semplice e della giovinezza fisica. Ma non attribuirei tutta la negatività alla vecchiaia. Uno può aver vissuto i suoi momenti peggiori a vent’anni ed essere felice a settantacinque. Il tempo passa, e c’è una certa allegria in questo».

L’anno scorso ha perso sua madre, Dona Canô. Come l’ha cambiata questo avvenimento?
«Mia mamma aveva centocinque anni ed è morta il giorno di Natale. Era la nostra ragione di festa e di orgoglio. Ci si sente improvvisamente adulti e che bisogna risolvere cose rimaste in sospeso».

In Italia canterà anche le sue celebri canzoni del passato?
«Chi verrà ad ascoltarmi mi vedrà come sono oggi, la musica che faccio oggi, che io canti classici del mio repertorio o del repertorio di Michael Jackson».
©Alberto Riva

Per ascoltarlo prima, l’ultimo cd “Abraçaço” e la collezione “Platinum” di 3 Cd (Universal) con i grandi successi.

Il narcotraffico alla guerra del “bianco”. A Rio torna la schiavitù

«Un occhio alla bibbia, l’altro alla pistola» canta Caetano Veloso in una sua bellissima canzone intitola «Heroi», l’Eroe.
Caetano è un grande osservatore della realtà del suo paese.
Religione e narcotraffico sono due forze di potere che spesso si contendono il dominio delle popolazioni più povere, in Brasile.
A Rio, sta accadendo qualcosa di paradossale.

Il narcotraffico, che domina molte favelas, ha cominciato a bandire la professione delle religioni afro-brasiliane.
Motivo? I capi delle fazioni del narcotraffico hanno abbracciato le religioni evangeliche, le nuove chiese, che in alcuni suoi settori più radicali osteggiano il culto di più schietta matrice africana, che poi è il culto più antico dei neri brasiliani. (Alcuni pastori, durante il culto, si scagliano addirittura contro la musica di matrice africana, il samba).

Come riporta un reportage di O Globo in questi giorni, ma la questione viene crescendo da qualche anno, il narcotraffico – che domina a seconda delle fazioni quasi tutte le favelas di Rio – impone ora il suo potere anche sulla vita spirituale degli abitanti delle comunità più disagiate.

I trafficanti non solo hanno fatto chiudere i terreiros, i luoghi di culto dell’umbanda e del candomblé, i due principali culti afro-brasiliani, ma proibiscono anche i segni esteriori: i tradizionali abiti bianchi e le collane afro.
Il giornale afferma che almeno quaranta leader religiosi afro sono stati costretti a lasciare le loro comunità e trasferirsi altrove. E così anche molti fedeli, raggiunti da minacce soltanto per aver lasciato gli abiti bianchi appesi ad asciugare all’aperto. Molti di loro, raccontano di essersi convertiti a qualche chiesa evangelica, per non soffrire rappresaglie e poter restare dove sono sempre vissuti.

Dicevo sopra che la questione, oltre che drammatica, è anche paradossale.

Accadeva nell’era dallo schiavismo che, nelle fazendas, gli schiavi africani dovevano professare di nascosto i loro culti portati dalla terra madre. Per questo, nelle religioni sincretiche brasiliane, alle divinità afro corrispondono santi cattolici: San Sebastiano è Oxossi, San Giorgio è Ogun, San Michele Arcangelo è Xangò, Santa Barbara è Iansà, e così via.
Gli schiavi cultuavano i santi cattolici ma in realtà erano devoti ai loro orixas africani. Era un trucco. Dovevano nascondersi. La mano di ferro dei padroni non voleva solo il loro lavoro ma anche la loro anima di credenti e li costringevano a dissimulare.
Per gli schiavi, cosa rappresentava il culto? Rappresentava due cose preziosissime: sentirsi vicini alla loro terra, a casa, e rappresentava la libertà.

La schiavitù è stata abolita nel 1888. Ma viene da chiedersi: davvero?
Oggi rinasce. Dove il paese è meno libero, nella favela, esistono ancora dei padroni in grado di vietare la libertà di culto che, in quelle terre di confine, spesso terre di nessuno (sebbene a quattro passi dagli shopping center) significa non solo partecipare a una “messa”, a un rito, ma è uno stile di vita, è un modo di vestirsi, un modo di stare insieme, di ascoltare e produrre musica, arte e modelli di convivenza. Lasciare libero campo alla piaga del narcotraffico è per il Brasile perdere una parte del suo popolo.
E’ come rinchiuderlo ancora una volta nelle stive delle navi.