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Storia di Sandro Penna, il poeta che visse (e scrisse) dormendo

Sandro Penna (1906-1977) è stato uno dei più grandi poeti italiani e anche uno dei più appartati. Per questo, forse, è meno noto di quanto invece meriterebbe: adesso sta per uscire l’opera completa nei Meridiani Mondadori, un’occasione per riscoprire una figura singolarissima del nostro panorama letterario, che nonostante la sua posizione “marginale” ha fortemente influenzato la poesia successiva.  Ne parlo sul “Venerdì di Repubblica” di questa settimana. Leggilo qui

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«Il prezzo dei fagioli non entra nella poesia». Addio a Ferreira Gullar, poeta della vita inventata

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Ferreira Gullar (1930-2016)

E’ morto a Rio de Janeiro Ferreira Gullar, il maggior poeta brasiliano, aveva 86 anni.
Nato nello stato tropicale del Maranhão, ha vissuto gran parte della sua vita a Rio, tranne un periodo, negli anni Settanta, quando preferì esiliarsi per non essere catturato dal regime militare (1964-1985), sette anni in cui girovagò tra Argentina, Cile e Russia.

Gullar era un grande poeta, un raffinato critico d’arte, un prolifico saggista e un pittore che si dilettava a rifare, copiare quadri celebri. Nel suo appartamento di Copacabana, nella Rua Duvivier, ce n’erano parecchi, di quadri suoi. Raccontavano, secondo me, il suo lato ludico, uno spirito tutto rivolto all’invenzione, all’epifania della scintilla poetica.

Gullar è stato un poeta civile, che prese posizione contro i militari, e per questo finì sulla lista nera (insieme a tanti altri, da Jorge Amado a Oscar Niemeyer a Chico Buarque: scrittori, poeti, architetti, musicisti, i militari non facevano distinzione).
Fu un altro poeta, molto in vista, a spendersi per facilitare il suo ritorno in patria: Vinicius de Moraes. Quando uscì la raccolta forse più celebre di Gullar, Poema sujo (Poema sporco), scritto in esilio, Vinicius nel recensirla chiederà formalmente l’amnistia per il collega, che di fatto in breve rientrerà.

Di Gullar è una delle più belle poesie brasiliane sulla libertà minacciata:

Agosto 1964
(…)
Dico addio all’illusione

ma non al mondo. Ma non alla vita,
mio rifugio e mio regno.
Del salario ingiusto
della punizione ingiusta
dell’umiliazione, della tortura
del terrore,
conserviamo qualcosa e con esso costruiamo un artefatto
un poema
una bandiera.

Ma Gullar era poeta soprattutto dell’esperienza interiore, vissuta però come riflesso inevitabile del mondo, un mondo nel quale spendersi e del quale caricarsi sulla spalle (forse imprimersi sulla pelle) il peso; ma non solo, del quale registrare, in forma poetica, la forza vitale (la vita, mio rifugio e mio regno).
Uomo nato in una delle regioni più povere e insieme più belle del Brasile, figlio di un quitandeiro, un fruttivendolo e droghiere, Gullar amava la realtà urbana, da cui era affascinato e in qualche modo sedotto: scappò ancora giovane verso Rio, che vedeva al cinema e immaginava attraverso le canzoni della radio. Come poeta, è stato molto vicino all’universo della musica e ai musicisti: suoi poemi sono stati musicati, tra altri, da Caetano Veloso (Onde andaras) e alcuni singoli versi da Adriana Calcanhotto, mentre è stato grazie a una melodia (e alla voce) di Raimundo Fagner che tutto il Brasile ha conosciuto forse una delle sue poesie più belle:

Traduzir-se (Tradursi)

Una parte di me
È tutto il mondo
L’altra parte è nessuno
Fondo senza fondo.

Una parte di me
È moltitudine:
L’altra parte estraneità
E solitudine.

(…)

Una parte di me
È solo vertigine:
L’altra parte,
Linguaggio.

Tradurre una parte
Nell’altra parte
– che è una questione
di vita o morte –
sarà arte?

Andai a casa di Ferreira Gullar un pomeriggio, dopo avergli semplicemente telefonato perché, scrivendo su Rio, stavo cercando di capire Copacabana e lui, di Copacabana, era una tipica creatura. Pressoché indifferente al caos orrendo di quella città nella città, ne assaporava insieme il fascino segreto e il mondo di occasioni, di brutture, di odori dispersi. A Copacabana in fondo si perdona tutto, in virtù dell’oceano sullo sfondo, con la sua possibilità di vento e di illusoria fuga. Gullar parlò molto, della saggezza dei brasiliani e della loro permissività: di entrambi gli aggettivi non capii se si trattava di un giudizio positivo o negativo. Probabilmente era entrambe le cose (una parte di me è solo vertigine, l’altra parte è linguaggio).

Citava spesso Vinicius de Moraes, «inventore di una vita felice» come qualcosa che pur essendogli prossima gli sfuggiva, misteriosa. Se de Moraes infatti era poeta arcade, elegiaco, dei sentimenti ideali, Gullar dei sentimenti indagava l’elemento umano, l’elemento mortale, “sporco”, come il suo poema magistrale. Nella sua poesia Gullar registrava la carnalità e la vertigine della vita, in una dimensione però metafisica che fa pensare, talvolta, alla pittura di Giorgio De Chirico.

Non c’è posto

Il prezzo dei fagioli
non entra nella poesia. Il prezzo
del riso
non entra nella poesia.

Non entrano nella poesia il gas
la luce il telefono
il furto
del latte
della carne
dello zucchero
del pane.

(…)

Perché la poesia, signori
è al completo: «non c’è posto»
Soltanto vi entra
l’uomo senza stomaco
la donna di nuvole
la frutta senza prezzo.

La poesia, signori,
non puzza
né profuma.

Era convinto di questo, Ferreira Gullar, un po’ come Seneca (e Vinicius): che la vita è esattamente come la poesia, ossia un’invenzione. A noi decidere quale.

©Alberto Riva