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Mankell prima di Wallander: la sottile arte di raccontare una vita invisibile

Marsilio pubblica L’uomo della dinamite, romanzo con cui nel 1973 esordì lo svedese Henning Mankell. Aveva allora venticinque anni, veniva dal teatro e aveva già cominciato a viaggiare il mondo. Il successo dei polizieschi con il Commissario Wallander verrà molti anni dopo, all’inizio degli anni Novanta, ma in questo suo debutto c’è già tutta l’intensità espressiva e l’urgenza di raccontare le contraddizioni del suo tempo e della società svedese. Un ritratto dello scrittore scomparso nel 2015 a sessantasette anni. 
Su “Il Venerdì di Repubblica”

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Addio a Henning Mankell, scrittore inquieto che ha raccontato il mondo

Henning Mankell in Africa, fonte www.henningmankell.com

Henning Mankell in Africa,
fonte http://www.henningmankell.com

Uno dei miei tanti sogni non realizzati era quello di andare a Maputo a intervistare Henning Mankell, lo scrittore svedese morto ieri a sessantasette anni, l’autore de La leonessa bianca e de Il ritorno del maestro di danza, del Cervello di Kennedy e di Scarpe italiane. All’inizio del 2014 aveva rivelato di essere malato di tumore.

Mankell trascorreva una parte della sua vita nel sud della Svezia, un’altra parte in Costa Azzurra e una parte in Mozambico, dove aveva fondato tanti anni fa un teatro, il Teatro Avenida. Avrei voluto intervistarlo in Africa e in portoghese. Nella terra che aveva eletto, che aveva scelto e di cui si era innamorato. Perché di Mankell, a parte le sue storie, mi affascinava lo stare in un posto pensando a un altro, la voglia di raccontare facce lontane, diverse, storie nate da radici non sue: la curiosità, la fascinazione per l’atterraggio, lo scrivere in un posto caldo, sotto le pale di un ventilatore, davanti a una finestra affacciata su uno spazio di cui ignori i confini, di cui ignori quasi tutto.
Sul suo sito mi ha sempre toccato una fotografia che lo ritrae in taxi, probabilmente in Africa, e dalla faccia, esausta ed elettrizzata, ho sempre voluto immaginare che fosse appena atterrato e stesse correndo verso la sua seconda casa, la sua seconda o terza vita. La scrittura di Mankell era ricca, era tutto fuorché funzionale, poiché si nutriva di questo sradicamento, di una seconda nascita che, di solito, è fatta di amore, di forti innamoramenti e anche di dolore, di piccoli dolori che sono quelli che la gente si porta negli aeroporti e nelle stazioni.

Mankell era uno scrittore pressoché inesauribile. Aveva creato il commissario Kurt Wallander e gli aveva messo sulle spalle il desiderio di fare un ritratto dell’attualità svedese, la radiografia sotto la pelle fredda e cupa, nascosta sotto il concetto di “nord” che forse Mankell aveva ben chiaro, forse perché aveva capito cosa voleva dire “sud”.
Così, quello che oggi è defnito giallo nordico, ha avuto uno dei suoi maggiori interpreti, che però è diverso da tutti gli altri. Wallander è uno dei personaggi più riusciti della letteratura contemporanea: vive nella stessa casa di Maigret e Montalbano, ma anche sullo stesso pianerottolo del Fowler dell’Americano tranquillo di Graham Greene, il cui dirimpettaio è Fabio Montale di Jean-Claude Izzo, che convive – in una coabitazione curiosa – con il Maqroll di Alvaro Mutis. Sono quasi tutti personaggi che, prestati a quello che spesso viene definito “genere” danno vita invece al romanzo di attualità, che significa economia, politica, criminalità, cronaca. Ben sapendo che tutte queste cose insieme fanno la Storia, e proprio con il piacere di raccontare la Storia Mankell esercitava il suo mestiere di romanziere.

Mankell è riuscito in qualcosa di molto difficile, e per questo lascia un grande vuoto. È stato uno scrittore impegnato senza volerlo essere. Con i suoi libri ha militato contro chi è responsabile del dilagare dell’Hiv in Africa, contro gli apartheid di qualsiasi latitudine, soprattutto contro una piaga che non smette di aprirsi: il razzismo. Amava ripetere una frase del mozambicano Mia Couto: “ogni essere umano è una razza”. E, ragionava Mankell, con ironia, “non si può essere razzisti, perchè non si può essere razzisti contro sei miliardi di razze diverse!”.

Ho cercato di nuovo quella fotografia, quella in cui Mankell è in taxi in Africa. Non la trovo più. Spero di non essermela immaginata. Potrebbe anche essere così. Farebbe parte del sogno. Eppure è l’immagine che, insieme ai suoi libri, mi è più cara. La vita sorpresa in un momento di personalissima, incomunicabile pienezza.

I miei consigli di lettura:
Il cinese
Il ritorno del maestro di danza
La leonessa bianca
La quinta donna
Assassino senza volto

L’uomo inquieto
Comedia infantil
Scarpe italiane
Prima del gelo
Il cervello di Kennedy
Mankell su Mankell (intervista) di Kirsten Jacobsen

Tutti editi da Marsilio, tranne Prima del gelo e Il cervello di Kennedy pubblicati da Mondadori.

Se lo scrittore non fa arredamento

Ho letto per caso un pezzo su «La Lettura» del Corriere a proposito delle mode letterarie e nel quale un articolista parla degli scrittori svedesi paragonandoli ai mobili Ikea, in tono chiaramente svalutativo. Fin qui, nulla di nuovo. E’ la stessa critica di molti anni fa (conservatrice?) per cui Somerset Maugham e Graham Greene sarebbero degli scrittori leggeri (frivoli?) mentre Fitzgerald e Steinbeck invece scrittori seri. Per me sono tutti e quattro scrittori molto importanti. (Nello stesso modo in cui Ikea sono ottimi mobili, se non si ha da spendere  per comprare Cassina).
Ciò detto: mi ha fatto sorridere che nel gruppo degli svedesi citati ci fosse, ovviamente, anche Henning Mankell che, a mio modesto modo di vedere, solo non avendolo letto si può considerarlo uno scrittore di genere o, peggio, di moda. Il suo torto, è vero, è quello di aver venduto 40 milioni di libri, sfacciataggine che lo colloca d’ufficio lontano dai gusti della critica raffinata. Però basterebbe leggere un suo libro per scoprire che Mankell è un fantastico scrittore dei nostri tempi, che fa letteratura senza intenti letterari, affrontando, ad ogni libro, una tematica diversa ma sempre legata al nostro mondo e ai suoi mali. Basti pensare al recente Il cinese, dove, in una vicenda affascinante, affronta il problema della neo-colonizzazione africana da parte della Cina. Ricorda il Graham Greene de Il console onorario, o il John Le Carré del Giardiniere tenace.
Ho pensato molto a Mankell in questi termini dopo aver letto Scarpe italiane, da poco pubblicato per Marsilio: la storia di un uomo che vive su un’isola, solo, al freddo, scambiando ogni tanto due parole con il postino (che non porta mai posta) e che un giorno vede riemergere dal passato la sua ex-moglie, ormai malata. Il miracolo della scrittura di Mankell è che, come nei polizieschi, riesce a tenerti incollato alle pagine anche con una storia fatta apparentemente di nulla, dai movimenti lentissimi, con un protagonista quasi antipatico ma che, come sempre nei suoi romanzi, prende il lettore per mano e lo conduce alla scoperta di un mondo impensabile. Sembra che i diritti del romanzo siano stati comprati da Kenneth Branagh e che l’uomo sull’isola sarà interpretato da Anthony Hopkins. E la cosa ci allieta assai.
Ah, un ultima cosa: prego i lettori de «La lettura» di non farsi distrarre dai giudizi in cui gli scrittori vengono paragonati ai comodini e agli scaffali, ma so già che non cadranno nel tranello, e consiglio vivamente Scarpe italiane, così come Il cinese e già che ci sono Il ritorno del maestro di danza, un superlativo giallo  che non sarebbe dispiaciuto a Georges Simenon. O meglio: ai suoi lettori.

Le calze di Mankell: diario di un viaggio

Ennio Flaiano scrisse che lo stile, in uno scrittore, “è una secrezione naturale”. Gli ho sempre creduto ciecamente. Si tratta di qualcosa di simile allo stile di una persona, come l’eleganza. Ricordo una frase del critico musicale brasiliano Sergio Cabral a proposito del grande sambista Cartola, una specie di George Gerswhin di Rio de Janeiro cresciuto in una favela, dove faceva l’imbianchino. Cabral iniziava un profilo del compositore così: “(Cartola)E’ stata una delle persone più eleganti che ho conosciuto”. Questa frase mi ha sempre colpito: quando poi ho ascoltato la sua musica, ho capito quello che Cabral voleva dire. Perché questo ricordo? Perché oggi El Pais pubblica un lungo diario dello scrittore Henning Mankell (nella foto da lagruyere.ch) che qui sull’Osservatore abbiamo già nominato poiché è uno dei nostri preferiti. Mankell era a bordo di una delle navi intercettate dall’esercito di Israele una settimana fa. Qui racconta la sua avventura. E sembra di leggere le pagine di uno dei suoi bellissimi romanzi gialli, e anche di quelli non gialli… Direi che Mankell è uno scrittore e basta: un grande scrittore. E anche in queste pagine di taccuino, per certi versi scioccanti, si riconosce il suo stile. Inconfondibile. Fatto di dettagli, apparentemente insignificanti, como quello delle calze che un soldato gli regala prima dell’espulsione da Israele.
Ah, perché non aprofittarne per ascoltare anche Cartola?

Cinesi d’Angola, avanti c’è posto

Il Cinese è il titolo del più recente romanzo dello svedese Henning Mankell pubblicato in Italia. Mankell è un meraviglioso scrittore di gialli, che trascorre la sua vita tra la Svezia e il Mozambico. Il Cinese è la storia di una strage, di una vendetta consumata in Svezia ma che nasce lontano. La sua origine è legata all’epopea dei cinesi che costruirono le forrovie americane in condizioni di schiavitù. Mankell riallaccia la sua storia all’attualità, raccontando un esodo simile dalla Cina all’Africa dei giorni nostri. E sta accadendo. Come informa lunedì 24 la Folha de S.Paulo l’esodo africano è già in atto. L’Angola è uno dei Paesi subsaaariani con gli indici di crescita maggiori, circa 8% all’anno. Il Brasile investe moltissimo, ma non come la Cina, che versa miliardi di dollari per costruire infrastrutture in cambio del petrolio: l’oro nero angolano è infatti responsabile del 50% del Pil del Paese. Il giornale informa che già 100 mila cinesi lavorano in cantieri angolani e che esisterebbe il progetto di mandarne in Africa fino a 2 milioni, manodopera a bassa specializzazione che potrebbe sostituire quella locale: in un Paese uscito da neanche dieci anni dalla guerra civile, dove già la tassa di disoccupazione oscilla tra il 20 e il 30%, non sarebbe uno scenario francamente paradossale?
(foto dal blog  juborges.wordpress.com)