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Ricordando Piero Chiara, il Balzac di Luino

Piero Chiara (1913-1986)

Piero Chiara (1913-1986)

Come di certi vini sai che saranno buoni già a partire dall’etichetta, così i romanzi di Piero Chiara, che ieri, 23 marzo, avrebbe compiuto cento anni, sono dei capolavori fin dal titolo. Quando uno scrittore concepisce qualcosa come Saluti notturni dal passo della Cisa, oppure I giovedì della signora Giulia, o Il piatto piange, ma anche La stanza del vescovo o Le corna del diavolo, si respira immediatamente la presenta di una storia che va raccontata.
Il titolo di un libro è già una storia. E Piero Chiara, che era nato a Luino nel 1913 ed è morto a Varese nel 1986, di storie ne ha raccontate tantissime, alcune assolutamente impareggiabili, tanto è vero che il cinema le aspettava al varco come un lupo famelico. Sul grande o piccolo schermo sono finite tutte o quasi le storie di questo Balzac lombardo, che dalla sponda sonnacchiosa della sua Luino ha instancabilmente raccontato le stanze ventilate o soffocanti del cuore umano.
Travestendo di volta in volta le sue vicende da commedia, giallo, romanzo di formazione, romanzo di fuga, pochade, farsa, Chiara ha descritto la provincia che è poi l’Italia e il tipo dell’uomo senza qualità, che è poi l’italiano, sebbene nei suoi romanzi ci siano sempre due anime che si contrappongono, talvolta in due personaggi antagonisti (esemplari il navigatore solitario e l’Orimbelli, signore della villa sul lago) de La Stanza de Vescovo. Ma spesso le due anime guerreggiano nello stesso personaggio, che nel corso della storia, come fa notare Mauro Novelli nella prefazione alla nuova edizione de Vedrò Singapore?, matura e acquista consapevolezza.
La maestria nella costruzione dei personaggi è senza dubbio uno dei talenti maggiori di Chiara, ma non solo: è notevole come concepisce le trame e le governa, e poi il tratteggio di certe figure, femminili soprattutto: con quale capacità chiaroscurale (ricorda Isaac B. Singer in questo) le dipinge: penso alla Matilde de La stanza del Vescovo, di cui ci si innamora perdutamente; ma penso anche alle tre sorelle – memorabili – de La spartizione.
C’è poi un’altra passione di Chiara, ed è la Storia, che sebbene entri nelle vicende in punta di piedi, sullo sfondo, come un odore o un clima, è sempre presente, e pesa assai. Spesso il ventennio fascista, che Chiara – figlio di un impiegato della dogana – aveva vissuto e osservato nei suoi tic, nelle sue tare, nelle sue tragedie e farse continue. Scrive infatti una Vita di Gabriele D’Annunzio, che è documento straordinario su quegli anni: non solo il lato boccaccesco del Vate, ma anche il versante doloroso, anche qui teatrale e farsesco. Così come quello di Giacomo Casanova, altro personaggio che lo scrittore inseguiva. Ed è una felice coincidenza che proprio ieri, nel centenario, mi sia capitato per le mani (a 2 euro) la Storia della mia fuga dai Piombi casanoviana nell’edizione Oscar con introduzione, traduzione e note di Piero Chiara. Quale miglior modo di festeggiarlo!
Chiara non solo era un grande scrittore, ancora oggi molto amato dal pubblico (tra i pochi ristampati di continuo), ma anche critico. E anche nella critica continua a fornirci occhi per vedere meglio: «La storia della fuga – scrive Chiara di Casanova – trasfusa con poche varianti nella Histoire de ma vie, resta quindi, agli inizi della sua ultima fase di vita e di fronte al suo maggiore impegno narrativo, uno squillo di tromba che annuncia l’imponente rassegna di fatti e di personaggi che avrebbe presto cominciato a sfilare nelle pagine delle sue “immortali memorie”, indelebile immagine e rappresentazione totale del secolo con il quale inizia, densa di annunci e rivelazioni, l’età moderna».

Se il romanzo è un fiume. Quante volte possiamo rileggere?

Ci sono scrittori, nel mio caso Paul Bowles, Isaac B. Singer, Alvaro Mutis, Jean-Claude Izzo, Ignazio Silone, Jorge Amado, per i quali il concetto di letti e riletti perde di significato. Non so se capite cosa intendo? Vale a dire che il fatto di aver letto una, due o tre volte uno dei loro libri non solo non fa alcuna differenza, ma è praticamente impossibile ricordarsene, poiché ogni volta – penso ai racconti de La delicata preda di Bowles, penso alla Trilogia di Maqroll di Mutis, a Shosha di Singer – è chiaramente la prima volta, l’unica volta, tranne che è una unica volta sempre più unica, sempre più indimenticabile.
In quella lista non ho citato Graham Greene che pure meriterebbe di stare in testa al corteo. In questi giorni stavo leggendo i Racconti dell’Età del Jazz di F.S.Fitzgerald ma sul mio cammino ho incontrato una edizione 1973 rilegata de Il console onorario. Pur avendolo da qualche parte in versione Oscar e pur avendolo già letto e avendo già visto il film un paio di volte, l’ho ovviamente ricomprato e, giunto a casa, l’ho aperto alla prima pagina… Ed ecco che è bastata la prima riga dell’incipit a non lasciarmi scampo…
Il dottor Eduardo Plarr se ne stava nel porticciolo sul Paranà fra le rotaie e le gru tinte di giallo, fissando lo sguardo là dove una piuma orizzontale di fumo si adagiava sul Chaco, posata fra le barre rosse del tramonto come una striscia su una bandiera nazionale…
Cosa è cambiato tra la prima e l’unica volta? Non lo si sa mai con certezza, si può intuire, sentire… In questo caso, forse, la presenza, subito, di un nome, che la prima volta era sconosciuto e nell’unica volta, poiché la vita trascorre, è diventato familiare: il fiume Paranà.
(In alto a destra Graham Greene, 1904-1991, in una immagine tratta da The Guardian)