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Richard Galliano: «Appartengo alla tribù delle emozioni».

Una carriera cinquantennale, tre dischi appena usciti e tre in programma, Richard Galliano si avvia a spegnere settanta candeline quest’anno. In questa intervista il grande virtuoso dell’accordeon ripercorre le tappe della sua attività e gli incontri che hanno segnato la sua vita, da Juliette Greco a Serge Reggiani, da Cher Baker a Enrico Rava, da Astor Piazzolla a Michel Legrand ai quali, dice, «devo tutto: ho seguito le loro orme».
L’intervista su “Il Venerdì di Repubblica”

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Richard Galliano, poeta della fisarmonica: «Il jazz è dolcezza».

Sul Venerdì di Repubblica di questa settimana intervisto Richard Galliano, in uscita con un nuovo doppio (bellissimo) cd, “New Jazz Musette” (Ponderosa Music&Art) inciso con Syvain Luc, Philippe Aerts e André Ceccarelli. Per ragioni di spazio sul giornale non ha trovato posto l’intera conversazione, che riporto invece qui. Buona lettura!

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Cosa sta facendo in questo periodo?
«Sono a Parigi un po’ in vacanza e un po’ per preparare la registrazione di un disco con Ron Carter, a fine mese. Sto lavorando su un brano di Ron intitolato First Trip, che registrò con Herbie Hancock nel disco “Speak like a child”. Provando tutto il giorno mi viene in mente una frase di Bill Evans che dice: “Meglio suonare lo stesso brano per ventiquattro ore che ventiquattro canzoni in un’ora”. È una frase molto importante: bisogna andare a fondo nelle cose».

Nel nuovo doppio lei torna infatti su alcuni suoi classici, come Ten years ago, Spleen, Giselle, Ballade pour Marion. Ma pare di sentirle per la prima volta
«Ogni mia composizione è legata a momenti della mia vita. Il disco è un ritratto in bianco e nero, abbiamo inciso 18 brani in tre giorni. Non li suono sempre alla stesso modo: nel disco è un gruppo adatto allo studio, poi normalmente dal vivo ho un gruppo dove suona anche mio figlio, la batteria, Jean-Cristophe Galliano, ma a Milano vengo con un’altra versione del gruppo, dove c’è Philip Catherine alla chitarra, che porta una nota di lirismo. Ho tre formazioni per dare colori differenti, sangue nuovo. Il disco è l’essenza della mia musica».

Cos’è la musette, e perché non si stanca mai di suonarla?
«La musette è come il tango o il blues. È una musica nata all’inizio del Novecento: il tango è stato fatto dagli immigrati in Argentina, il blues dai neri americani, e per la musette sono stati gli italiani che arrivavano a Parigi e si sono mischiati con i gitani e i musicisti del centro della Francia, e hanno inventato la “valse musette”: i fisarmonicisti erano tutti di origine italiana: Tony Murena, Marcel Azzola, Joss Baselli, etc. Negli anni Ottanta la musette era ormai dimenticata, non si suonava più. Un giorno Astor Piazzolla mi disse: io ho fatto il tango nuevo, tu devi fare il new musette. Infatti il disco New Musette che feci nel 91 è stato un tributo a Piazzolla. La mia preoccupazione è usare le radici della musette swing, che anche Django Reinhardt suonava, e mischiarle con la mia visione del jazz. Tutto il jazz che io suono, come oggi che sto suonando con Ron Carter, è un nutrimento per la mia versione della musette».

Come le pare lo stato di salute del jazz odierno?
«Il jazz oggi mi pare un po’ troppo aggressivo: spesso i musicisti sono arroganti, ho questa sensazione. Quando ascolto Coltrane non sento aggressività, ed è comunque moderno, inventivo. Senza dubbio si tratta di un riflesso della società di oggi, che è aggressiva. Ma sul palco io non voglio aggressività, anzi ho bisogno d’amore, di dolcezza. La natura della musica è questa, la dolcezza».

Piazzolla era malinconico come la sua musica?
«Piazzolla aveva un grande senso dell’umorismo, era un grande amante della vita e della buona tavola. Diceva sempre che prima di suonare con qualcuno doveva mangiarci assieme, perchè non c’è da fidarsi di una persona che non mangia e non beve».

Fa centotrenta concerti all’anno. Qual è il segreto della sua musica?
«Faccio parte della tribù di quei compositori che cercano prima di tutto la canzone, cioè una melodia che chiunque possa cantare facilmente».

Il suo primo maestro è stato suo padre. Come sta?
«A dicembre compirà 90 anni: è ancora appassionato di tutto, classica, jazz, musette. Per me è davvero un grande esempio. Stiamo sempre in contatto: lo chiamo per chiedergli uno spartito e lui me lo trova. Abbiamo scritto insieme un metodo didattico per la fisarmonica. Io a dicembre compio 66 anni e lui 90: la vita corre veloce!».

Da quanto tempo suona la fisarmonica?
«La mia fisarmonica ha cinquant’anni, me l’ha regalata mia nonna. E io ho iniziato a tre, quattro anni a suonare il pianoforte e piccoli organetti. Quindi sono più di sessant’anni che suono. Con la mia fisarminica è una storia d’amore: passo da Mozart a Ron Carter e Herbie Hancock, è davvero uno “stradivari”».

Che fisarmonica è?
«La costruisce la ditta Victoria di Castelfidardo, è del 1963/64. In realtà ho due fisarmoniche dello stesso anno, che alterno: hanno lo stesso suono. Ogni tanto le porto a riparare, anche se mi piace aggiustarle da solo, se i problemi son piccoli».

Usa sempre queste due?
«Sì. Io mi sento come un poeta o un cantate, che nelle sue composizioni racconta la sua vita, le sue emozioni: ho dedicato le mie composizioni a mia moglie, ai miei figli, alle persone che amo. E certamente c’è il suono: questi strumenti hanno il mio suono, e non potrei suonare altri strumenti. Non riesco a capire quei musicisti che cambiano gli strumenti. Frank Rosolino, famoso trombonista, diceva che bisognava usare lo stesso bocchino per tutto la vita. Una mattina facevo colazione con Toots Tielemans, che è scomparso da poco, e mi ha detto che il suono dello strumento è un lavoro che dura tutta la vita. Il jazzista è uno che senti due note e devi dire: è lui».

Dopo l’ultimo disco dedicato a Mozart (Deutsche Grammophon) ha in progetto nuove incisioni “classiche”?
«Uscirà un cofanetto che riunisce i tre classici: Vivaldi, Rota, Bach. Poi ho idea di fare un disco in duo con un organista di chiesa, francese, che si chiamata Thierry Escaich: si sta pensando di suonare Haendel, oltre a improvvisazioni e brani originali. Abbiamo già fatto dei concerti insieme. I progetti non sono mai un calcolo, bisogna lasciare la porta aperta».

I suoi sono italiani, anche suo padre?
«Mio padre è nato vicino a Grasse. Io sono nato a Cannes, e ho vissuto a Nizza fino ai vent’anni. La regione di Nizza è molto italiana, molto particolare: i miei nonni venivano dall’Umbria e dal Piemonte».

Dopo tanti anni non le pesa la fisarmonica sempre in spalla?
«Ci sono abituato, però pesa. Ho fatto il calcolo: un violino pesa trecento grammi, la mia fisarmonica 13 chili. In pratica suono 45 violini! Il fatto è che posso suonare soltanto in piedi: ho capito però che il peso influisce sulla dinamica, sul suono: non potrei suonare seduto, come fanno molti miei colleghi. Certo, quando posso stare a casa tiro un respiro di sollievo…».

©Alberto Riva

«Il mandolino? Un camaleonte che ama viaggiare». Intervista con Avi Avital

Avi Avital, foto di Guy Hecht

Avi Avital, foto di Guy Hecht

Sul Venerdì di Repubblica di questa settimana intervisto il mandolinista Avi Avital. Trentacinque anni, israeliano, Avital ha appena pubblicato il suo nuovo disco, «Beetween Worlds» per la Deutsche Grammophon. Un disco bellissimo, in cui il mandolinista (che ha vissuto a Pavia e Padova dove è stato allievo di Ugo Orlandi) spazia in un repertorio affascinante, da Bartok a Villa-Lobos, fino ai meno conosciuti Sulkhan Tsintsadze e Vittorio Monti, accompagnato, tra gli altri da Richard Galliano e Giora Feidman. Qui di seguito pubblico l’intervista completa che sul giornale ho dovuto, per ragioni di spazio, sforbiciare assai.

Avi Avital, raccontami un pochino delle tue origini, dove sei nato, e dei tuoi studi musicali?
Sono nato A Beer-Sheva, una città nel sud d’Israele. I miei genitori sono ebrei marocchini e sono venuti in Israele da ragazzi, negli anni 60. La musica che ascoltavo in casa da bambino era una miscela fantastica di Chanson francese, musica tradizionale marocchina e cantautori israeliani.

So che vivi a Berlino…
Berlino mi ha sempre attratto per il suo dinamismo nella musica e nell’arte in generale. Questa città sta godendo secondo me un’esplosione di creatività e originalità grazie ai molti artisti che ci sono andati a vivere. Un’atmosfera veramente ispiratrice. Berlino oggi è come immagino Monmarte a Parigi nel inizio del’ 900, quando Renoir, Degas, Satie, Picasso e molti altri sedevano negli stessi caffè a scambiare idee e a guidare la fase più creativa dell’arte moderna.

Come nasce la passione per il mandolino, e come inizi a suonarlo?
Quando ero un bambino avevamo un vicino di casa che suonava il mandolino. Poi quando avevo otto anni ho chiesto ai miei di iscrivermi al conservatorio dove c’era una piccola orchestra giovanile di strumenti a pizzico.

avi_venerdìIl tuo che tipo di mandolino è? Quali sono le sue caratteristiche tecniche?
Il mandolino che uso normalmente è costruito dal liutaio israeliano Arik Kerman. È un modello abbastanza innovativo che non segue in modo rigoroso la forma tradizionale del mandolino napoletano che conosciamo. L’idea era di costruire un mandolino adatto alle grandi sale di concerto d’oggi, e di metterlo nella stessa linea degli strumenti ad arco, sotto il profilo del volume di suono, il “range” dinamico ecc.

Il mandolino è uno strumento della musica popolare, giusto? Però lo troviamo anche presente in classici come Vivaldi etc. A questo proposito ti chiedo due cose: la musica in quei casi nasce per il mandolino o è trascritta?
Il mandolino nasce in Italia come uno strumento legato piuttosto all’ambiente colto e infatti si diffonde tra i nobili del 700. In molti ritratti dell’epoca si vede il mandolino come soggetto, o in mano a una giovane donna nobile. Nonostante la sua popolarità i grandi compositori tendevano a ignorare questo strumento, forse perché era comunque associato ad un ambiente piuttosto amatoriale. Salvo, tra gli altri, Vivaldi con i due dolcissimi concerti, Hummel, Scarlatti e anche piccoli gioielli da Beethoven e Mozart. Il mio precedente album era dedicato tutto alla musica di Bach, scritta originalmente per diversi strumenti (violino, flauto, clavicembalo). Con le trascrizioni per il mandolino ho voluto sottolineare l’aspetto universale e assoluto di questa divina musica. Musica che va molto oltre allo strumento per cui originalmente è stata scritta. Anche se Bach non ha scritto mai per il mandolino, semplicemente non posso immaginare la mia vita da musicista senza suonare la sua musica.

Definisci il mandolino un “camaleonte musicale”, perché?
Il mandolino, per il suo caratteristico timbro e per la sua storia spesso legata a contesti non musicali, sollecita diverse associazioni. Si ricorda non solo il mandolino, ma una seria di strumenti a pizzico della stessa famiglia, legati a varie culture – per esempio la Balalaica russa, il Bouzouki Greco, il Koto Giapponese, Il Tar persiano, il Charango sudamericano eccetera eccetera… Così il suono del mandolino può richiamare echi di suoni antichi, lontani o vicini, familiari o esotici.

Arriviamo al disco. Con quale criterio hai scelto il repertorio? Con quale idea?
L’idea che guida è l’integrazione della musica tradizionale (o popolare) con la musica d’arte, che chiamiamo musica classica. Come artista, mi ha sempre attratto esplorare i confini tra questi due generi. Il mandolino gode di questa identità ambigua tra il colto e il popolare. Per “indagare” questo tema, mi sono riferito ai compositori della prima metà del 900’ che sono ormai dei simboli di questa integrazione. Bartok, Manuel De Falla, Villa-Lobos, tra gli altri – hanno tutti rielaborato i loro propri patrimoni musicali, portandoli alle sale da concerto.

E come hai scelto i musicisti che ti accompagnano?
Per ogni composizione ho voluto immaginare un mondo sonoro che ci portasse verso le origini della musica da cui è ispirata. La materia prima. Così nelle “Canzoni Popolari Spagnole” che De Falla ha composto per mezzo-soprano e pianoforte, il nostro arrangiamento presenta, insieme al mandolino ovviamente, la chitarra spagnola, l’arpa, il Cajon, che è la tipica percussione del flamenco, insieme ad altri strumenti più “classici”. La fisarmonica, sempre uno strumento che gioca tra il colto e il popolare, ha una forte presenza in questo album grazie al grande Richard Galliano. Ha portato in questo album non solo la sua musicalità incantevole, ma anche un atteggiamento più spontaneo che appartiene al mondo del Jazz e della musica popolare. Così nelle trace che abbiamo registrato insieme, gli arrangiamenti si sono creati spesso al momento.

cover AviCi sono pezzi nati per il tuo strumento o sono generalmente trascrizioni?
Quasi tutti i brani sono scritti per diversi strumenti o voce, tranne uno. L’eccezione è il compositore napoletano Vittorio Monti, che ha scritto la Czardas – quindi, imitando una forma popolare ungara, per “mandolino o violino e pianoforte”. Monti stesso fu un mandolinista e scrisse vari pezzi, meno conosciuti, per il mandolino, compreso un piccolo metodo per il mandolino.

Parlami un poco di Sulkhan Tsintsadze, che non conoscevo, così come non conoscevo Ora Bat Chaim. Cosa mi dici di loro?
Sulkhan Tsintsadze era un violoncellista e compositore Georgiano. La maggior parte della sua vita è stato il compositore della celebre “Georgian State String Quartet”. La maggior parte delle sue composizioni infatti e numerose brevi “Miniature” per quartetto d’archi sono basate su temi popolari Georgiani. Ho scoperto queste meravigliose composizioni nel mio primo viaggio a Tbilisi e mi sono innamorato in questa musica immediatamente.

Qual è la caratteristica che ami di più del tuo strumento?
Il mandolino è uno strumento ricco di sorprese. Mi piace scoprilo di nuovo con ogni progetto.

Hai trovato difficoltà a far accettare il tuo strumento nei templi della musica classica?
Lo scorso gennaio ho fatto il mio primo recital alla Carnegie Hall di New York. E’ stata un’esperienza fantastica. Ma oltre ad essere una personale pietra miliare, un sogno realizzato, solo il fatto che la Carnegie ha presentato un recital intero di musica classica per mandolino, vuol dire che il mondo è pronto a scoprire l’arte del mandolino.

Suonerai in Italia in futuro?
Certamente. Da quando ho vissuto in Italia la considero una seconda casa. Quest’estate tornerò a fare dei recital in Toscana e in Piemonte.
©Alberto Riva