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Gilberto Gil, samba e filosofia: «Bisogna ancora imparare a “essere”»

Pubblico qui nella sua versione integrale l’intervista con Gilberto Gil uscita oggi su «Il Venerdì di Repubblica» che, come sempre, per ragioni di spazio, è stata assai ridimensionata. Ho riportato soprattutto le risposte che attengono alla musica e alla nuova tournée italiana che comincia stasera da Roma, rimaste quasi tutte fuori dal testo. 

Gil_Venerdi

Come nasce questa nuova tournée?
È una tournée eccezionale. Nasce dal desiderio mio e di mia moglie di viaggiare nei luoghi che amiamo di più in Italia e Francia in special modo. Lione, Lille, Parigi, Roma, Venezia, Firenze. Andiamo anche a Vienna e Zurigo, siamo stati a Montreaux. Dunque mettendo insieme il viaggio e alcuni concerti molto semplici, voce e chitarra, con cui affronto un repertorio molto ampio di tanti momenti della mia carriera: lieve, sciolto, per mostrare al pubblico la forza dell’intimità che c’è tra il repertorio, la mia voce e la mia maniera di suonare la chitarra. Siamo soli io e Flora, e lei si occupa di tutta l’organizzazione del tour, comprese le luci degli show, una cosa che le piace molto fare.

Lo show includerà anche pezzi del suo ultimo disco, «Gilbertos Samba»?
Alcune cose del disco faranno parte dei concerti. L’anno prossimo farò invece proprio il tour di Gilbertos Samba, tranne che sul palco in quel caso ci saranno anche mio figlio Ben, Domenico Lancellotti e Mestrinho, un giovane fisarmonicista molto talentuoso.

Il disco è un omaggio alla Bossa Nova e a João Gilberto. Cosa ha rappresentato per lei João?
João ha inaugurato una visione dell’espressività musicale completamente sua, originale. João ha scelto di esprimersi con quella sua soavità e tranquillità, e nello stesso tempo dando enfasi nella ricchezza dei ritmi brasiliani a cominciare dal samba. Il tutto, fatto con una modernità che all’epoca veniva definita “cool”, influenzato dal cool jazz americano. E una grande apertura al repertorio della canzone brasiliana: cominciò cantando cose importantissime dell’epoca che lo aveva preceduto, anni Trenta e Quaranta, e insieme fu interprete delle novità a lui contemporanee: Tom Jobim, Vinicius de Moraes, Carlos Lyra, Roberto Menescal e Ronaldo Boscoli. Insomma, tutta la generazione della Bossa Nova. La sua profondità nella relazione tra il canto e l’accompagnamento della chitarra sono stati determinanti per una intera generazione. C’è molto della chitarra di João nel mio modo di suonare la chitarra, è l’influenza principale, sono un suo oriundo! E poi l’attenzione acutissima alle nuances ritmiche, alle nuances armoniche, alla visione modernista dell’armonia. La sua poetica modernizzatrice ha influenzato me, Chico, Caetano e tanti altri.

A quando risale esattamente la sua amicizia con Caetano Veloso?
Con Caetano ci siamo conosciuti a vent’anni a Salvador, siamo entrambi del 1942. Fu proprio l’interesse comune per la Bossa Nova e João Gilberto ad avvicinarci.

Vorrei sapere qualcosa di alcune sue canzoni. Come sono nate. Partiamo da «Soy loco por ti America».
«Soy loco por ti America» è mia e di Capinam, ed è stata interpretata la prima volta proprio da Caetano. La scrissi a San Paolo nel periodo in cui stava venendo alla luce il repertorio di Tropicalia ou Panis et Circensis. La vera ispirazione di questa canzone è la saga di Che Guevara, espressa nella frase è «el nombre de l’hombre muerto».

«Aquele abraço»?
«Aquele abraço» è una musica d’addio. La scrissi quando stavo lasciando il Brasile per andare in esilio a Londra. Ho sentito per la prima volta questa espressione quando ero stato imprigionato dai militari, a Rio, nel 1969. In realtà la usava un umorista della tv ed era molto usata dai soldati.

Aveva mai pensato che la musica l’avrebbe portata al carcere e all’esilio?
Fu una specie di shock. Non avrei mai immaginato che i cammini della musica e della poesia, la mia dimensione letteraria e poetica mi avrebbero portato a confrontarmi in modo così duro con la vita politica. Ma, a ben pensarci, il momento in cui io emergo come musicista corrisponde al momento in cui in Brasile si installa la dittatura. Io ero studente, come lo erano Chico Buarque, Caetano e tanti altri, e noi dovemmo impegnarci in una militanza contro la dittatura. A Bahia, a Rio, a San Paolo, e ciò finì per includere la nostra arte che irritò i militari.

Ebbe paura di non tornare?
Io temevo, avevo il sospetto che poteva passare molto tempo senza poter tornare in Brasile. Non si capiva come poteva finire quella storia. Per fortuna dopo tre anni invece potemmo tornare dal momento che sebbene ancora ci fosse il regime cominciava ad esserci una distensione, i militari capivano che non potevano intervenire pienamente nella vita repubblicana.

Chi vi aiutò in quella circostanza?
Innanzitutto la famiglia e gli amici stretti e i militanti. Ma poi c’era una rete di esiliati brasiliani in varie città europee, esiliati e auto esiliati, cioè gente che se n’era andata di sua spontanea volontà. Parigi, Londra, Roma, Zurigo.

Mi parli di «Cerebro Eletronico».
Ah, sì, questa l’ho scritta proprio mentre ero in prigione nel 69 a Rio.

Sul serio? Lei scriveva «Cerebro eletronico» e Caetano, nella sua cella, scriveva «Terra», un altra canzone storica. Con un po’ di cinismo si potrebbe dire che la prigione fa molto bene alla musica brasiliana!
(Ride) Molte volte sì!

Ma meglio evitare, no?
Certo.

Poi Gil aggiunge.
Sono le cose della vita, come diciamo noi in Brasile: con un limone fai una limonata.

Torniamo alla canzone…
Mi è venuta in un momento di aspettativa per la rivoluzione tecnologica che sarebbe avvenuta qualche anno dopo. Si riferiva ai primi computer, alla cibernetica, che lasciava la scienza per approdare nella tecnologia. Mi pare profetica.

Lei usa le nuove tecnologie?
Osservo a distanza. Faccio parte di una generazione pre-tecnologica. Personalmente non sono un utente delle reti sociali, ma in qualche modo le promuovo attraverso le mie canzoni o anche azioni, a cominciare da quando ero ministro. Sono trasformazioni sociali interessanti, direi anche psicosociali: nuove forme di comunicazioni tra individui e gruppi sociali, dalle moltitudini a una sola persona, mi paiono interessanti. D’altra parte ho dedicato a questo universo un intero lavoro di due o tre anni, con il disco Banda Larga Cordel. Dove invitavo il pubblico a filmare i concerti, metterli in rete, condividere, scaricare gratuitamente le canzoni, a fotografare e fotografarsi durante gli show: mi pare, a pensarci adesso, una anticipazione di Instagram, visto che accadeva ormai dieci anni fa!

Un’altra canzone che trovo molto interessante è «Preciso aprender a só ser». Come nacque?
Era il momento in cui cominciavo a interessarmi molto alla sfera spirituale della vita e le relazioni tra oriente e occidente, filosofie greca e orientale. Leggevo Burroughs, mi interessava la cultura hippy, i guru indiani. Così ho approfittato del samba di Marcos Valle (Preciso aprender a ser só) e l’ho risvoltato al contrario: invece di imparare a stare “soli”, bisogna imparare a “essere”, cioè integralmente presenti nell’essere. È il riciclaggio di una canzone popolare ed è il procedimento più comune nell’arte contemporanea: il riciclaggio.

Parliamo dell’immagine che il Brasile ha nel mondo. Sente un mutamento di percezione nel mondo?
Il Brasile è diventato più chiaramente un paese importante, per le sue dimensioni, la formazione della gente, la pluralità della sua cultura e a causa della globalizzazione, che esige che i paesi in qualche modo si parifichino in una sorta di attenzione reciproca, un processo di interesse mondiale. Il mondo è più attento al Brasile, anche solo a partire dalla sua economia. Resiste tuttavia una insistenza in una serie di cliches, fotografie classiche, ma credo che non come una volta: samba, carnevale, cioè la dimensione folclorica. Oggi non è più solo così.

Lei crede in Dio?
Io rispetto le credenze, cioè la traduzione che ognuno fa dell’idea di Dio, dell’idea di un essere trascendente. Le religioni hanno avuto, nonostante i problemi che talvolta provocano, una indubbia importanza nella direzione che prende una società. Io non ho una preferenza. Io sono simultaneista. Sono per la simultaneità. Penso che in me abita il sentimento della fede e il sentimento del dubbio, dello scetticismo. Le due cose insieme. Non riesco a scegliere un Dio pienamente soddisfacente, al quale consegnare la mia vita intera. La mia religiosità è filosofica.

Mi pare che lei lo esprima nella canzone «Se eu quiser falar com Deus».
Esatto. Dove, oltre alle dimensioni delle credenze, parlo di un luogo vuoto, un niente, diciamo così, che merita anche lui di essere rispettato. Il nostro destino può essere il vuoto. Nei momenti di maggior debolezza, fragilità, paura, si è tentati di cedere a un credo che ci aiuti, che ci conforti, ma anche in quei momenti non sono riuscito, non mi è successo: ho continuato ad essere credente e scettico nello stesso tempo.

La sua famiglia è grande, tanti figli, tanti artisti…
Vari sono artisti, i miei figli Preta, Ben, Nara. E adesso il più piccolo, José, ha un suo gruppo musicale, nel quale, addirittura ci suonano due miei nipoti!

Sul serio?
Sì. A Rio c’è questo gruppo in cui suona mio figlio e due miei nipoti! E in futuro può essere che ci entri pure io: stiamo pensando a qualcosa da fare insieme!

©Alberto Riva

Gilberto Gil suona questa sera in “solo” a Roma, il 26 a Fabriano, 28 Cesena, 1 novembre a Trieste e il 6 a Padova.
Da ascoltare: Gilbertos Samba (Sony Music)

Una ricetta per la crescita: produrre cultura

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27 febbraio 2012
Il valore delle idee

Leggo spesso le dichiarazioni degli amministratori pubblici italiani e non vedo quasi mai un’idea alternativa alla fustigazione sociale di fronte agli effetti della supposta crisi. Il tabù sono le idee. Credo che non ci siano idee perché manca apertura mentale e curiosità rispetto a ciò che accade nel resto del mondo. Vorrei che questa gente viaggiasse per vedere cosa stanno facendo gli altri, che idee hanno messo in campo e in quale modo si può fare economia al di là di tagliare, tartassare, stringere cinghie, etc. Soluzione che anche mia nonna di novantatre anni era capace di suggerire nei suoi rari momenti di lucidità.
A questo proposito vorrei portare un esempio brasiliano, quello del SESC, cioé Servizio Sociale del Commercio. Istituzione nata nel 1946 (avete capito bene: 1946) che obbliga (con contributo compulsivo) tutti gli imprenditori del commercio e dei servizi a versare l’1,5% del salario di ogni loro impiegato all’ente. Per dare un’idea di ciò che l’ente produce porterò solo i numeri dello Stato di San Paolo (ma i centri SESC sono disseminati in tutto il Brasile). Prima però dirò cosa fanno i centri SESC: spettacoli teatrali, cinema, concerti, corsi di formazione, doposcuola, sport, attendimento medico dentistico e mense popolari.

Per un utente distratto, come me, però il SESC vuol dire innanzitutto cultura: non so quanti concerti, show, spettacoli teatrali e mostre d’arte ho visto gratis o quasi gratis nei SESC. Molte delle mie passioni musicali brasiliane sono state soddisfatte in una delle sale SESC. Ma soprattutto:  quanta gente ci ho visto lavorare dentro; un concerto per esempio significa il team che organizza la produzione, i gestori dello spazio, gli addetti ai lavori dello spettacolo che è stato contrattato: inoltre nei SESC c’è ristorante, bar, libreria, biblioteca. Ebbene i numeri: solo nello Stato di San Paolo esistono 32 SESC, che significano: 27 auditorium per musica e teatro; 37 sale esposizione; 27 biblioteche, 78 campi di sport; 67 sale di ginnastica; 102 consultori odontoiatrici popolari; 47 tra bar e ristoranti; 7977 posti a sedere tra cinema, teatro e auditoirum musicali. Mi fermo qui.
Si ha idea di cosa significa in posti di lavoro? Facendo una stima per difetto: ogni centro può impiegare in media una cinquantina di persone. Oltre all’indotto a cui da lavoro (musicisti, teatranti, professori, educatori, etc etc). Senza contare tutta la parte gestionale e amministrativa. Sono migliaia di persone che lavorano. Il
SESC riguarda solo il commercio. Esistono enti simili per industria (SESI), banche, etc. Cioé tutti coloro che producono profitti utili contribuiscono con un minimo alla creazione di altra economia. Sembra così semplice. Perché non ci si apre a nuove idee che già esistono?

Il mondo non significa solo geopolitica, Brics e baggianate del genere.
Il mondo è più ricco di quello che sembra.

Se una notte, d’estate, due cani a San Paolo

 

cover eco

 

Il cimitero di Praga di Umberto Eco è da settimane ai primi posti in classifica in Brasile. Non l’ho letto, non so se lo farò, però ho letto un paio di lunghe interviste a Eco sui giornali brasiliani e l’argomento del romanzo mi ha incuriosito: la falsificazione. Dagli articoli che avevo letto in Italia non l’avevo capito, non so perché.
In uno dei due servizi, molto lungo e ben fatto, Eco dice una cosa che mi colpisce e cioé che ciò che caratterizza le forme di linguaggio umane è la possibilità di mentire. Dice: «Un cane non mente mai. Quando abbaia c’è qualcuno là fuori: non è mai successo che un cane abbai per farci credere che qualcuno è là fuori senza che ci sia – l’uomo invece sì».

Ebbene, non distante da dove mi trovo c’è un lungo viale molto trafficato: uno di questi desolati e polverosi viali di San Paolo che in una delle nostre città farebbero pensare all’estrema periferia, mentre a San Paolo si trovano non distanti dal centro. Sembra un viale che porta fuori città, ma non lo è. La città continua per chilometri, non finisce mai: si prova a immaginare una forma, un disegno, ma non ci sono. La città non è un progetto, è una necessità: è stata forgiata dall’accumularsi di gente, dall’accumulo di storie, di viaggi, di fughe. Non si è badato all’estetica, si è badato all’urgenza e alla fame: per questo San Paolo è così brutta e così vitale.

Sul viale le auto corrono, i camion, gli autobus, anche di notte. Anche di notte si alza la polvere e l’asfalto scadente trema. Alle spalle della fermata dell’autobus dove sto in attesa, c’è un grande laboratorio che lavora il marmi. I fogli di marmo e granito sono esposti all’aperto. I marmisti lavorano sotto una tettoia: segano i fogli di marmo e alzano altra polvere. Quando chiude, nel tardo pomeriggio, a guardia del laboratorio restano due cani, uno nero e uno color caffelatte. Infilano il muso nella rete e osservano il viale, il traffico. Sono completamente inadatti a fare la guardia: si lasciano accarezzare il naso nero, un po’ impolverato anche quello.

Voi direte: ok, ma cosa c’entra Umberto Eco?
Spesso, di notte, nel silenzio, dal letto, li si sente abbaiare. Ci sono molti cani chiusi dietro i cancelli delle case di San Paolo, e di questa via: ma io so che quelli che sento abbaiare di notte sono i cani del marmo. E una di queste notti ho ripensato all’intervista.
Ho pensato a questi cani che, nel silenzio della notte, stanno dicendo la verità, gridano la verità, la ululano. Sanno che nessuno li ascolta?

Non lo so. Eppure continuano a dire la verità, nella notte, a nessuno e insieme a tutti. Mi è parso, nell’insonnia, un bell’auspicio. Anzi: qualcosa da ascoltare.

Nota. Articolo aggiornato il 20 febbraio 2016 alla notizia della scomparsa del grande scrittore italiano. 

Cosa sfugge agli economisti

crakolandia (foto AFP)

crakolandia (foto AFP)

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10 gennaio 2012
Crackolandia

Si chiama crackolandia e non è un parco dei divertimenti. E’ un quartiere del centro di San Paolo. Di giorno sono quattro vie non particolarmente accoglienti: negozi, mercatini, vecchi edifici dove la gente vive stipata. Di sera si trasforma nel remake della «Notte dei morti viventi».

Centinaia di derelitti popolano le quattro strade mal illuminate: consumano, comprano, si addormentano come cani randagi. Sono zombi migranti: prima stavano da un’altra parte, sotto un cavalcavia. Li hanno scacciati come scarafaggi. E sono arrivati qui. Non sarà l’ultima tappa: domani li vedremo altrove. Nel frattempo però il crack, a San Paolo, è diventato un “problema di ordine pubblico”. Non solo a Sampa, anche nelle altre città. Qui però ha dimensioni da epidemia, come tutto a San Paolo. E tra sabato e domenica scorsi è scattata una nuova operazione da parte del potere pubblico: occupare crackolandia. Centinaia di poliziotti hanno caricato gli zombi con lacrimogeni e proiettili di gomma. Alle 23.45 in punto di sabato sera la polizia ha caricato e li ha dispersi: a George Romero, il celebre regista di Zombi, la scena sarebbe piaciuta, tanto era oscenamente irreale.

Il crack ti consuma come l’oltretomba. Il crack è la criptonite che ti trasforma in un supereroe del tumulo. Bruci la pietruzza nella pipa e ti dimentichi di essere il nulla moltiplicato al quadrato. La polizia ha disperso gli Zombi, ma gli Zombi sono ancora tra noi. Bisogna però che chi manda i ghostbusters per strada a catturare questi ectoplasmi della nuove società emergenti si faccia anche una domanda. Chi sono, gli Zombi? E perché si diluiscono in quella pipa costruita con una bottiglietta d’acqua segata a metà? Semplice: sono gli ultimi, e forse non è un caso che proliferino dove le differenze sociali sono mostruose: San Paolo.

Gli economisti del grande crack emergente dividono il Brasile in fasce sociali ben precise. Più o meno queste: classe A e AA (ricchissimi): ormai non si vedono più, vivono in elicottero. Classe B (media): si annoiano, hanno già quasi tutto ma non possono salire più di tanto, che fai? Passi dallo schermo 28 pollici al 32 pollici? Che palle! E’ un purgatorio. Classe C: la grande novità, la crescità: si divertono come matti, comprano tv, radio, viaggi, case, telefonini: tutto a rate. Consumano. Sono l’eldorado dei lupi del marketing. Classe D: tra breve saranno nella C, li si snida a colpi di programmi sociali, borse famiglia, luce per tutti.
Agli economisti è però sfuggita la classe-crack: non esistono, niente casa, niente rate, niente di niente.

Solo i marciapiedi, e i proiettili di gomma.

La signora delle contumelie. Ovvero: recitare in una tragedia e non saperlo neppure

Troppe telenovelas possono fare un certo effetto. Lei, anziana per bene del quartiere bene di San Paolo, a passaggio nel caos multicolore della metropoli più delirante del cono sud, oilà, chi ti incontra sul suo cammino? Un mendicante paralitico mezzo nudo. E cosa fa? Chiaro, chiama la polizia: ordina agli agenti di levarle “questa spazzatura, questo macaco” dal cammino. Gli agenti non ci possono credere: la dichiarano in arresto. Ovvio: è colta in flagranza di reato. Fattispecie? Razzismo, preconcetto, e altre specificazioni minori. Reato grave: in Brasile si viene spediti in guardina senza cauzione. Non sembra vero neanche a lei: son cose, dal suo punto di vista, che si vedono in televisione, magari nelle novelas delle 18, quelle in cui tragedia e commedia si miscelano in un sulfureo susseguirsi di gag incipriate, dove si gioca sottilmente con la società iperclassista: dove non c’è bacio gay (rimandato dopo le 22), dove la governante è nera e veste in uniforme carta da zucchero, dove c’è l’autista che parla male, e dove il figlio della famiglia povera fa innamorare la figlia dei ricchi (o arricchiti) dell’Avenida Paulista. Ed ecco che realtà e finzione si sono mischiate come caffé e latte. Ed ecco lei, in tutto il suo splendore, che, all’annuncio dell’arresto, reagisce: analfabeti! Un telefonino, come sempre, ha ripreso tutto.

Portinari, il vento e le marie

Davanti a nessuna delle circa cento opere di Candido Portinari esposte al MAM di San Paolo siamo rimasti in silenzio come di fronte a Marias (riprodotto in questa immagine). Non ci siamo domandati del perche’ di quel silenzio. A volerlo ascoltare, bastava il vento a darci la risposta.
L’ esposizione, intitolata No atelie de Portinari 1920-1945, e’ in programma fino al 18 settembre. Di domenica non si paga.
Portinari (1903-1962), figlio di migranti italiani, era nato in un piccolo centro dell’entroterra paulista chiamato Brodowski. Segui’ fin da giovane la vocazione artistica per la quale abbandono’ gli studi. Poi entro’ all’ Accademia di Belle Arti, quindi si mise a viaggiare in Europa. Molti anni dopo, gia’ riconosciuto come uno dei grandi artisti della sua epoca, scrisse: «Nonostante sia stato ostacolato dalla Scuola di Belle Arti, che annacquo’ la mia pittura, da Parigi sono riuscito a vedere di nuovo Brodowski. Osservando grandi maestri come Picasso, Orozco, Rivera, e studiando gli antichi, ho ritrovato le mie forme, perse nell’ apprendistato ufficiale di Rio de Janeiro».

Lula torna alle origini: guiderà la riforma politica e la strategia per le amministrative del 2012

Le elezioni amministrative del 2012 sono uno dei principali motivi del ritorno sulla scena politica nazionale di Luiz Inacio Lula da Silva. L’ex-presidente della Repubblica, infatti, impegnato attualmente come conferenziere negli Stati Uniti e in Europa, pur non aspirando ad alcun incarico effettivo, è stato chiamato dalla dirigenza del Partito dei Lavoratori (Pt) a coordinare le alleanze in vista del prossimo appuntamento elettorale, dal momento che il partito sia della presidente Dilma Rousseff che dell’ex-Lula è seriamente intenzionato a vincere, innanzitutto nella città di San Paolo, storicamente baluardo dell’opposizione. Già entro il prossimo ottobre, dovrebbe essere reso noto il nome del candidato petista, che correrà o da solo o come capo di una stretta alleanza. Inoltre, sul tavolo, c’è da tempo la cosiddetta “riforma politica” che dovrebbe essere affrontata dal congresso, nella quale è inclusa anche la riforma delle regole elettorali e altre importanti declinazioni della macchina politica nazionale, tra cui le regole per il finanziamento pubblico delle campagne. Secondo la Folha de S.Paulo, l’intervento di Lula è fondamentale per Dilma, libera così di proseguire il suo impegno al governo senza doversi occupare della “bassa cucina”, articolazione delle alleanze e programmi, dove il carisma e le capacità di Lula sono solide come il marmo.

Il barone rampante esiste: vive su un fico a San Paolo

Ha 23 anni, lustra scarpe (engraxate) e raccoglie lattine per strada, e vive su un immenso fico ai bordi della Radial Leste, uno stradone di San Paolo. Non sa esattamente da quanto tempo vive sul fico: forse tre, forse cinque anni. Perché? Da quando hanno dato fuoco a dei ragazzini nella Praça da Sé, in centro. Dice. E poi qualcuno lascia del mangiare farcito con veleno per topi. Lì in cima, invece, André si sente al sicuro. Come racconta in questo formidabile video reportage della Folha.  Chissà se Italo Calvino immaginava che il suo eroe immaginario non lo era poi così tanto…

Hector Babenco e il sogno ad occhi aperti

Con un biglietto al costo di ZERO reais (che al cambio equivale a ZERO euro) ieri sera ci siamo seduti in un bel teatro dell’Avenida Paulista, centro di San Paolo, per essistere alla piece intitolata Hell, tratta dal romanzo della francese Lolita Pille. L’adattamento del libro è di Hector Babenco e sul palco, in un quasi monologo di 70 minuti c’è Barbara Paz, ottima attrice brasiliana, che è anche la moglie di Babenco, argentino naturalizzato brasiliano, regista del Bacio della donna ragno, di Carandirù e del bellissimo Il Passato, nonché residente di San Paolo (sublime la sua definizione della città letta recentemente: «San Paolo non è una città, bensì un videogame: più punti fai, più conquisti un appartamento migliore»). Ebbene non starò qui a dire della piece, il delirio di una giovane parigina malata di griffe e cocaina, ma dirò del fatto che il teatro dove ho visto lo spettacolo (la cui regia di Babenco è conturbante) è della Sesi-Fiesp, cioé l’Associazione degli industriali di San Paolo, che ha una programmazione culturale fantastica, perlopiù gratuita. La platea, piena, era quasi tutta under 25 e mentre seguivo le reazioni televisive del pubblico, risate, fischi, applausi, urletti (soprattuttio femminili, perché in scena, insieme alla Paz, c’è Ricardo Tozzi, un bel giovanotto-giocattolo), mi sono fermato a pensare che è come se in Italia io stessi assistendo gratis allo spettacolo di un grande regista in un teatro della Confindustria. E ho riso da solo, fuori tempo, durante un momento altamente drammatico dello spettacolo. Fantascienza!
Il teatro è al piano terra di un grosso grattacielo della Fiesp e io non so neppure se la Confindustria, in Italia, c’abbia un palazzo, un sede. Immagino di si. Ma so che non ha un teatro. Non mi interessa quale sia la legge che fa in modo che, in Brasile, tutte le banche, le assicurazioni, molte associazioni come la Fiesp (esistono anche i teatri del Sesc, l’associazione del commercio), abbiano grandi centri culturali, ognuno con due tre teatri, sale da concerto, biblioteche, caffè, etc etc. Non mi interessa. So che io ero lì seduto a vedere la Paz (che è una bella attrice) e Babenco (un genaile regista), su un testo che ricorda il Bret Easton Ellis di Meno di zero: GRATIS. E scorrendo il programma (gratis) ho contato 40 persone che lavorano per il teatro della Fiesp. 40 persone. Ripeto: non mi interessa sapere che legge sia (quali vantaggiose detrazioni fiscali la Fiesp ottenga investendo in cultura), ma mi interessa sapere che in Italia una legge così semplice e decisiva non ci sia, non ci sia nemmeno il progetto, l’idea, l’intenzione. Sogno quel giorno in cui diremo: stasera vado a vedere Eugenio Barba al Centro Culturale Unicredit… GRATIS
(In alto, Barbara Paz nello spettacolo)