Etichettato: Jazz

Richard Galliano: «Appartengo alla tribù delle emozioni».

Una carriera cinquantennale, tre dischi appena usciti e tre in programma, Richard Galliano si avvia a spegnere settanta candeline quest’anno. In questa intervista il grande virtuoso dell’accordeon ripercorre le tappe della sua attività e gli incontri che hanno segnato la sua vita, da Juliette Greco a Serge Reggiani, da Cher Baker a Enrico Rava, da Astor Piazzolla a Michel Legrand ai quali, dice, «devo tutto: ho seguito le loro orme».
L’intervista su “Il Venerdì di Repubblica”

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Stefano Bollani: «Il mio gruppo brasiliano? Un tappeto volante».

Sul “Venerdì di Repubblica” intervisto Stefano Bollani in occasione dell’uscita del suo nuovo disco, Que bom, che segna il ritorno in Brasile a dieci anni dal successo di Carioca.
Ospiti d’eccezione, oltre agli stessi musicisti di Carioca, questa volta sono Caetano Veloso, Joao Bosco, Hamilton de Hollanda e Jaques Morelembaum e altri.bolla1_venerdì

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Chi era John Coltrane: vita e miracoli di un gigante del jazz

John Coltrane morì a New York cinquant’anni fa, il 17 Luglio 1967. E’ stato uno dei maggiori sassofonisti della storia del jazz, la cui influenza è forte ancora oggi. In questo articolo su “Il Venerdì di Repubblica” ne ripercorro la storia e qualche titolo imprendibile della sua vastissima (e varia) discografia.

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Richard Galliano, poeta della fisarmonica: «Il jazz è dolcezza».

Sul Venerdì di Repubblica di questa settimana intervisto Richard Galliano, in uscita con un nuovo doppio (bellissimo) cd, “New Jazz Musette” (Ponderosa Music&Art) inciso con Syvain Luc, Philippe Aerts e André Ceccarelli. Per ragioni di spazio sul giornale non ha trovato posto l’intera conversazione, che riporto invece qui. Buona lettura!

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Cosa sta facendo in questo periodo?
«Sono a Parigi un po’ in vacanza e un po’ per preparare la registrazione di un disco con Ron Carter, a fine mese. Sto lavorando su un brano di Ron intitolato First Trip, che registrò con Herbie Hancock nel disco “Speak like a child”. Provando tutto il giorno mi viene in mente una frase di Bill Evans che dice: “Meglio suonare lo stesso brano per ventiquattro ore che ventiquattro canzoni in un’ora”. È una frase molto importante: bisogna andare a fondo nelle cose».

Nel nuovo doppio lei torna infatti su alcuni suoi classici, come Ten years ago, Spleen, Giselle, Ballade pour Marion. Ma pare di sentirle per la prima volta
«Ogni mia composizione è legata a momenti della mia vita. Il disco è un ritratto in bianco e nero, abbiamo inciso 18 brani in tre giorni. Non li suono sempre alla stesso modo: nel disco è un gruppo adatto allo studio, poi normalmente dal vivo ho un gruppo dove suona anche mio figlio, la batteria, Jean-Cristophe Galliano, ma a Milano vengo con un’altra versione del gruppo, dove c’è Philip Catherine alla chitarra, che porta una nota di lirismo. Ho tre formazioni per dare colori differenti, sangue nuovo. Il disco è l’essenza della mia musica».

Cos’è la musette, e perché non si stanca mai di suonarla?
«La musette è come il tango o il blues. È una musica nata all’inizio del Novecento: il tango è stato fatto dagli immigrati in Argentina, il blues dai neri americani, e per la musette sono stati gli italiani che arrivavano a Parigi e si sono mischiati con i gitani e i musicisti del centro della Francia, e hanno inventato la “valse musette”: i fisarmonicisti erano tutti di origine italiana: Tony Murena, Marcel Azzola, Joss Baselli, etc. Negli anni Ottanta la musette era ormai dimenticata, non si suonava più. Un giorno Astor Piazzolla mi disse: io ho fatto il tango nuevo, tu devi fare il new musette. Infatti il disco New Musette che feci nel 91 è stato un tributo a Piazzolla. La mia preoccupazione è usare le radici della musette swing, che anche Django Reinhardt suonava, e mischiarle con la mia visione del jazz. Tutto il jazz che io suono, come oggi che sto suonando con Ron Carter, è un nutrimento per la mia versione della musette».

Come le pare lo stato di salute del jazz odierno?
«Il jazz oggi mi pare un po’ troppo aggressivo: spesso i musicisti sono arroganti, ho questa sensazione. Quando ascolto Coltrane non sento aggressività, ed è comunque moderno, inventivo. Senza dubbio si tratta di un riflesso della società di oggi, che è aggressiva. Ma sul palco io non voglio aggressività, anzi ho bisogno d’amore, di dolcezza. La natura della musica è questa, la dolcezza».

Piazzolla era malinconico come la sua musica?
«Piazzolla aveva un grande senso dell’umorismo, era un grande amante della vita e della buona tavola. Diceva sempre che prima di suonare con qualcuno doveva mangiarci assieme, perchè non c’è da fidarsi di una persona che non mangia e non beve».

Fa centotrenta concerti all’anno. Qual è il segreto della sua musica?
«Faccio parte della tribù di quei compositori che cercano prima di tutto la canzone, cioè una melodia che chiunque possa cantare facilmente».

Il suo primo maestro è stato suo padre. Come sta?
«A dicembre compirà 90 anni: è ancora appassionato di tutto, classica, jazz, musette. Per me è davvero un grande esempio. Stiamo sempre in contatto: lo chiamo per chiedergli uno spartito e lui me lo trova. Abbiamo scritto insieme un metodo didattico per la fisarmonica. Io a dicembre compio 66 anni e lui 90: la vita corre veloce!».

Da quanto tempo suona la fisarmonica?
«La mia fisarmonica ha cinquant’anni, me l’ha regalata mia nonna. E io ho iniziato a tre, quattro anni a suonare il pianoforte e piccoli organetti. Quindi sono più di sessant’anni che suono. Con la mia fisarminica è una storia d’amore: passo da Mozart a Ron Carter e Herbie Hancock, è davvero uno “stradivari”».

Che fisarmonica è?
«La costruisce la ditta Victoria di Castelfidardo, è del 1963/64. In realtà ho due fisarmoniche dello stesso anno, che alterno: hanno lo stesso suono. Ogni tanto le porto a riparare, anche se mi piace aggiustarle da solo, se i problemi son piccoli».

Usa sempre queste due?
«Sì. Io mi sento come un poeta o un cantate, che nelle sue composizioni racconta la sua vita, le sue emozioni: ho dedicato le mie composizioni a mia moglie, ai miei figli, alle persone che amo. E certamente c’è il suono: questi strumenti hanno il mio suono, e non potrei suonare altri strumenti. Non riesco a capire quei musicisti che cambiano gli strumenti. Frank Rosolino, famoso trombonista, diceva che bisognava usare lo stesso bocchino per tutto la vita. Una mattina facevo colazione con Toots Tielemans, che è scomparso da poco, e mi ha detto che il suono dello strumento è un lavoro che dura tutta la vita. Il jazzista è uno che senti due note e devi dire: è lui».

Dopo l’ultimo disco dedicato a Mozart (Deutsche Grammophon) ha in progetto nuove incisioni “classiche”?
«Uscirà un cofanetto che riunisce i tre classici: Vivaldi, Rota, Bach. Poi ho idea di fare un disco in duo con un organista di chiesa, francese, che si chiamata Thierry Escaich: si sta pensando di suonare Haendel, oltre a improvvisazioni e brani originali. Abbiamo già fatto dei concerti insieme. I progetti non sono mai un calcolo, bisogna lasciare la porta aperta».

I suoi sono italiani, anche suo padre?
«Mio padre è nato vicino a Grasse. Io sono nato a Cannes, e ho vissuto a Nizza fino ai vent’anni. La regione di Nizza è molto italiana, molto particolare: i miei nonni venivano dall’Umbria e dal Piemonte».

Dopo tanti anni non le pesa la fisarmonica sempre in spalla?
«Ci sono abituato, però pesa. Ho fatto il calcolo: un violino pesa trecento grammi, la mia fisarmonica 13 chili. In pratica suono 45 violini! Il fatto è che posso suonare soltanto in piedi: ho capito però che il peso influisce sulla dinamica, sul suono: non potrei suonare seduto, come fanno molti miei colleghi. Certo, quando posso stare a casa tiro un respiro di sollievo…».

©Alberto Riva

«Il segreto è inventarsi». Parola di Franco Cerri, 90 anni con swing

Sul Venerdì di Repubblica di questa settimana intervisto Franco Cerri che compie 90 anni. «La fama? Non mi interessa. Anche il tizio che incontro sul tram è importante». Il più grande jazzista italiano si racconta con la classe e lo humour di sempre. E intanto esce il suo nuovo disco, “Barber Shop 2”.

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Il samba è nell’anima. Parola di Stacey Kent

Sul Venerdì di Repubblica di oggi intervisto Stacey Kent, straordinaria cantante jazz e non solo. Tra le sue passioni c’è anche la musica brasiliana, che interpreta nel suo disco The Changing Light ma anche in un recente lavoro con Marcos Valle e in progetti futuri con Roberto Menescal. Di seguito il testo dell’intervista.

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Se le chiedi quali sono i cantanti che l’hanno ispirata, Stacey Kent, una delle più belle e raffinate voci di oggi, ti farà i nomi di Ella Fitzgerald, Willie Nelson, Cat Stevens, fino a Louis Armostrong. «Ovvero», spiega, «non penso in termini di genere musicale, ma di anima». La lista prosegue infatti con i brasiliani João Gilberto e Elis Regina e il francese Serge Gainsbourg, del quale la Kent interpreta divinamente le canzoni – in un francese più che impeccabile: «per via di mio nonno, russo, che visse vent’anni in Francia durante la sua giovinezza».

Stacey Kent, nata in New Jersey quarantasei anni fa ma oggi divisa tra Londra, la città di suo marito, il sassofonista e compositore Jim Tomlinson, e le montagne del Colorado, dove stanno quando non sono in tournée, arriva adesso per la prima volta a Roma l’8 maggio all’Auditorium Parco della Musica e il giorno dopo al Blue Note di Milano. Porta le canzoni del suo disco The Changing Lights, dove ad alcune perle della Bossa Nova si sommano pezzi scritti per lei, come in passato, da Tomlinson e dallo scrittore nippo-inglese Kazuo Ishiguro.

Partiamo da qui. Come nasce questa collaborazione con l’autore di Quel che resta del giorno?
«Stavo ascoltando una trasmissione della BBC chiamata Desert Island Discs, dove persone famose parlano della loro vita e alla fine c’è un gioco: se finissero su una isola deserta quali dischi porterebbero? E Kazuo Ishiguro disse che avrebbe portato con sé i miei dischi! Così è entrato nel nostro universo musicale. Quando era giovane, all’università, suonava la chitarra, che suona oggi ancora bene. Scrive testi che sento molto miei».

Oltre al francese canta anche in brasiliano. Come fa a essere così autentica, così naturale?
«Vado almeno una volta all’anno in Brasile, ho amici tra i musicisti e ho appena inciso un disco con Marcos Valle. Non potrei cantare in una lingua che non conosco, è una questione di fonetica. Il pubblico invece non per forza ha bisogno di capire le parole: ascoltare un’altra lingua è come una musica strumentale, è la poesia del suono, colpisce un’altra sfera dei sensi».
Nel disco ci sono anche due pezzi scritti con il poeta portoghese Antonio Ladeira. Cosa chiede a chi scrive per lei?

«Sanno che non amo il dramma ma i sentimenti malinconici. E la speranza. Nelle canzoni che canto, come nei samba di Vinicius de Moraes, deve esserci sempre un pizzico di speranza».
©Alberto Riva

«Il mio segreto? La semplicità». Addio Sellani, gigante del jazz

Nel Cd, Sellani in un ritratto di Emanuele Vergari

Nel Cd, Sellani in un ritratto di Emanuele Vergari

«Buongiorno Renato». «Ciao!». E lo aveva esclamato con quel misto di franchezza e sottile ironia, e gusto per la vita, che erano il suo marchio di fabbrica. Così era Renato Sellani. Fino all’ultimo.
Il grande pianista è scomparso nella notte del 31 ottobre a Milano a 88 anni.  Proprio ieri, sul «Venerdì di Repubblica», ho pubblicato una breve intervista per recensire il suo ultimo, bellissimo disco. Che adesso suona, e non è un gioco di parole, come un commiato.

Qui riporto in versione integrale la nostra conversazione di qualche giorno fa, che sul giornale per ragioni di spazio è stata accorciata. La lascio come l’avevo scritta, al presente. D’altra parte la sua musica vive, è più viva che mai.

Ottantotto, come i tasti del pianoforte. E come gli anni di Renato Sellani. Esce adesso Glad there is you (Ponderosa Music), un doppio cd nel quale il grande pianista di Senigallia, classe 1926, torna su un vastissimo repertorio di canzoni, italiane e standard americani: ma c’è anche una personalissima rilettura della Pavane di Gabriel Fauré.
 Una sintesi mirabile dello stile asciutto, elegante, poetico e ironico di Sellani. E insieme, un punto alto del pianismo “solo”, uno stile a sé nell’ambito del piano jazz e che ha avuto, a mio parere, i suoi vertici in John Lewis, George Shearing, quel mondo a parte che è Alone in San Francisco di Thelonious Monk e più recentemente il Keith Jarrett di The melody at night with you. Sellani, a questo stile nello stile, aggiunge adesso una pietra miliare, un disco che è già un classico per la bellezza e la profondità di alcune interpretazioni (Laura, Moon River, Roma nun fa la stupidaNe me quitte pas); le sottili citazioni, le zampate, le memorie che non sono peso bensì struggente leggerezza.

Ascoltando questo disco mi sono chiesto: cosa lo rende così bello? Perché è già un classico? La risposta non è venuta subito, ma ci sono voluti molti ascolti. Poi è venuta: in questo disco non c’è un briciolo di routine.

Parlandoci, quello che colpisce del grande musicista, storico componente del quintetto Basso-Valdambrini, che giunse a Milano negli anni Cinquanta chiamato da Franco Cerri, è prima di tutto l’umiltà: «Io non ho studiato tanto la musica, c’è gente che è molto più vicina di me al pianoforte. Di fronte ai grandi pianisti mi arrendo. Quando mi danno i premi per me sono immeritati. Forse sono riuscito come pianista per la mia semplicità di invenzione. Sono contento di comunicare alle persone che mi ascoltano».
E subito dopo l’intelligenza: «Il mondo va come va: guerre, rivoluzioni, poveri contro poveri. E anche il rispetto per il prossimo è andato a farsi friggere. Il mio vuole essere un messaggio controcorrente. Vedo queste canzoni come un gesto positivo verso il prossimo; come i cuoricini della copertina, cuoricini che mi pare oggi manchino un po’ nel mondo». Così, questo raffinatissimo jazzista, raccontava il suo disco. Sellani

Ancora appassionato di queste vecchie canzoni?
«Certa avanguardia definiva il jazz musica borghese. Qualcuno le chiamava canzonette. Per me queste canzoni sono come musica classica, sono grande musica e meritano di essere ancora onorate».

Ogni canzone un ricordo…

«Io ho avuto la fortuna di trascorrere tantissime estati alla famosa Bussola di Marina di Pietrasanta. Ero stato li tante volte come pianista del quintetto di Gianni Basso e Oscar Valdambrini, e poi ero diventato una specie di braccio destro del proprietario Sergio Bernardini. Sergio diceva che gli portavo fortuna. Tanto che all’inizio della serata mi chiedeva di stare alla porta, che facevo venir voglia alla gente di entrare!».

E chi ha visto passare da quella porta?

«Ho conosciuto tutto il mondo che passava di lì. Faccio un esempio. Burt Bacharach, siamo diventati amici, era venuto con Dionne Worwick, nei primi anni Sessanta. Un giorno mi diede un pezzo di carta con su una canzone che aveva appena scritto, dicendomi: “Sono sicuro che la suonerai bene”. Era Alfie. E io per per la prima volta la suonai in televisione, una trasmissione importante di quell’epoca, e i dirigenti mi dissero: “Sellani, il brano è molto bello, ma è troppo difficile per l’ascolto in tv. Io risposi: Lo so, l’ho scelta apposta”».

Ha suonato tanto anche con Mina…
«Certo. Nel contratto c’era scritto che io fossi prima di tutto il suo presentatore. Non cantava se non c’ero io sul palco. E qualche volta l’accompagnavo, soprattutto quando c’era cattivo tempo. Il suo gruppo abituale suonava con strumenti elettrici, piano, chitarra. Quando c’era il temporale la luce andava via e lei rimaneva da sola sul palco… Allora mi chiamava: Renato corri! Accompagnami! E io, va bene! Lei si faceva fare un microfono di cartone e cantava così davanti a mille persone… Negli anni Sessanta è nata l’amicizia con tutti i cantautori, soprattutto i genovesi».

sellani_venerdiNel disco c’è una versione sublime di «Io che amo solo te»…
«Un pomeriggio stavo studiando qualcosa e arriva questo tizio con un accento un po’ istriano, triestino. Si chiamava Sergio Endrigo. Mi dice che avrebbe voluto tanto cantare alla Bussola. Io gli dissi che lo avrei accompagnato. Mi disse che gli piaceva un pezzo di Cole Porter. Era pure difficile. Ma lui era bravo. Poi mi disse che voleva farmi ascoltare un brano che aveva scritto lui. Gli chiesi come si intitolava e mi rispose che ancora non lo sapeva. Forse “La gente”, disse. Si era ispirato a People della Streisand… La canzone era “Io che che amo solo te”, che inizia proprio con quel verso. “C’è gente… “. Da lì è cominciata la sua carriera. Come dicevo prima: ogni canzone un ricordo. La mia vita è un romanzo».

Per esempio?
«Per esempio suonai ‘Round Midnight quando per la prima volta venne in Italia Lee Konitz, nel 1960 o giù di lì. Nessuno lo conosceva e lui me la insegnò».

Un’altra sua passione è lo sport…
«Alla Rai c’era Beppe Viola, che era un mio fan, mi chiamò in Corso Sempione e mi disse: abbiamo deciso che sei il musicista più sportivo d’Italia. Noi si andava insieme a vedere il trotto e il galoppo. Sandro Ciotti mi voleva alla Domenica Sportiva perché sapevo benissimo le regole di tutti gli sport. Beppe mi disse che volevano affittare lo stadio di San Siro e farmi suonare in mezzo al campo circondato dalle fotografie dei grandi campioni di ogni sport. Avrei suonato in mezzo a tutti quei fantasmi! Poi lui si è ammalato e l’idea è rimasta solo un sogno…».

Si può definirla schivo? «Preferisco restare in disparte, non è falsa modestia, ma le cose devono venire fuori naturalmente, da sole».

©Alberto Riva