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L’arte del dubbio di Giovanni Arpino

Su “Il Venerdì di Repubblica” del 27 ottobre un ritratto di Giovanni Arpino nel trentennale della scomparsa e in occasione della ripubblicazione del suo capolavoro La suora giovane (Ponte alle Grazie). Giornalista e scrittore, fu autore di grandi romanzi portati poi al cinema coma Il buio e il miele (Profumo di donna) e Un’anima persa.

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L’Italia in tre grandi romanzi: Cassola, Sciascia, Arpino

Darsi da soli i compiti delle vacanze: non c’è niente di meglio. E visto che avevo deciso così, mi sono letto tre libri nelle edizioni originali del tempo della scuola, che son belli già a partire dalla carta: Il taglio del bosco di Carlo Cassola; A ciascuno il suo di Leonardo Sciascia e Il fratello italiano di Giovanni Arpino. La scelta è stata più o meno casuale. I primi due li avevo sullo scaffale, già letti. Il terzo l’ho comprato usato a 4,50 Euro. Quest’ultimo, come quello di Cassola, è una Bur Rizzoli tascabile, mentre Sciascia è nei Coralli di Einaudi. Cassola non lo ricordavo per niente: ricordavo, vagamente, il clima malinconico del racconto di questo tagliaboschi, Guglielmo, lacerato dal ricordo della giovane moglie morta e che, nel lavoro, faticoso, difficile, affidato alla forza, all’amicizia dei compagni, al clima turbolento della Maremma, solo nel lavoro trova un po’ di pace. Non ricordavo la scrittura limpida, lo stile volutamente piatto, scarnificato, magistrale di Cassola. Un romanzo magnifico, di uno scrittore immenso.
Di Sciascia ricordavo qualcosa di più ma avevo la certezza che, letto intorno ai vent’anni, non l’avessi capito: e infatti, rileggendolo, non solo è stato come leggerlo per la prima volta, ma ho trovato un romanzo tra i più attuali dello scrittore siciliano. Certi romanzi invecchiano male, ma non questo. Il tono quasi farsesco con il quale Sciascia traveste i delitti del suo anonimo paese siciliano è lo specchio di un più vasto Paese, l’Italia, consumato dal veleno dell’ipocrisia, la falsa fede religiosa, la corruzione, il familismo (un cancro) e l’esercizio politico come occupazione della cosa pubblica. Un romanzo tragico, non per il destino infame del professore (la cui inadeguatezza è anch’essa una colpa imperdonabile) ma per la data di pubblicazione: 1966. In quasi cinquant’anni è cambiato ben poco, qui da noi.
Il fratello italiano di Arpino non l’avevo mai letto e qui, devo dire, la sorpresa è stata di quelle impagabili. Una storia dura, commovente, acida, cattiva. Lo scrittore piemontese gioca volutamente con un che di parossistico: i due vecchi che si incontrano per mettere insieme, per caso, le loro vendette, sono qualcosa di dolorosamente magnifico.
E poi un fatto: solo a lettura ultimata mi sono reso conto che i tre romanzi hanno seguito una linea cronologica quasi perfetta. Quello di Cassola uscì nel 1950: l’Italia montagnosa, provinciale, ancora innocente del dopoguerra. A ciascuno il suo vide la luce nel’66: e vi si respira una sorta di vento che porta tempesta. Non è qualcosa che si è rotto – tutto era già rotto sotto la pelle, sotto le pietre siciliane e nazionali, tutto già imputridiva ma restava nascosto. Sciascia era uno scrittore, al pari di Pasolini, che si era dato il compito di sollevare il tappeto, di raccontare – con i mezzi dell’inchiesta filosofica – l’Italia che entrava in cancrena. In fine Il fratello italiano: premiato nel 1980 con il Campiello il romanzo di Arpino registrava ormai la metastasi: l’ex-maestro Botero e il suo gatto Stalin, e l’ex-operaio Cardoso con i suoi 25 milioni cuciti nella giacca, sono cellule impazzite alla ricerca di una qualche catarsi, di una quale soluzione terminale, benché limpida, benché a testa alta. Siamo a Torino nel 1979, e l’Italia questi due cittadini li ha già persi per strada. Botero e Cardoso ne sono consapevoli e, in qualche modo, ne percepiscono le ragioni, e presentono le future disgrazie. Per questo progettano l’atto indicibile, e sta qui la grandezza del romanzo.
Quanto alla scrittura, tutti e tre sono costruttori di uno stile altamente romanzesco, altamente sofisticato, eppure mai ricercatamente letterario: Cassola nel suo parlato che aderisce alle cortecce; Sciascia nella lingua sardonica, ambigua della congiura e Arpino che è in grado di dare voce alle intemperie interiori di gente che ha sempre avuto poca lingua, poco spazio d’espressione.

Abbiamo avuto, credo come pochi altri, contemporaneamente in attività, scrittori di un talento, di una originalità, di una forza universali: da riscoprire, da leggere, da divulgare.